Il Cinema Ritrovato di Bologna è un festival che ha il potere di metterci nel ruolo di spettatori felici: e ciò malgrado il caldo insostenibile all’uscita dalle sale confortevolmente condizionate, e malgrado un programma che costringe a scelte dolorose, con la sensazione di aver perso molte più cose di quelle viste. Ma quelle viste bastano a confortarci. Scrivevamo nella presentazione che erano quest’anno eventi prioritari l’omaggio a Golestan (comprendente Forugh Farrokhzad) e la seconda parte dei film sovietici del disgelo, su cui qui ci soffermeremo.

A visioni fatte siamo certi di non esserci sbagliati, anche se altri film erano un contorno prezioso. In primis The Half-Breed con cui Allan Dwan si conferma massimo tra i massimi: un film con supervisione di Griffith, protagonista Douglas Fairbanks, da un romanzo di Bret Harte sceneggiato da Anita Loos, insomma un concentrato di geni che tuttavia è a ogni fotogramma opera d’autore dwaniana. E poi la cornice delle nostre visioni, due copie vintage di quegli anni ’60 che restano una miniera inesauribile, densa di grandi opere della vecchiaia: ci riferiamo a Marnie di Hitchcock e A Countess from Hong Kong di Chaplin, curiosamente entrambi con interprete Tippi Hedren: due film certo non sconosciuti ma che a ogni visione sono più belli; l’ultimo Chaplin, maltrattato all’epoca come l’ultimo Dreyer e l’ultimo Rossen, è forse il suo film più bello in assoluto.

La rassegna argentina, a parte lo splendido Soñar, soñar di Leonardo Favio, risentiva dell’assenza di Hugo Fregonese, e francamente il mélo di Hugo del Carril non raggiunge non dico Matarazzo (di cui pur ricalca L’angelo bianco) ma nemmeno Brignone. Pregevole invece la scelta di film italiani muti, ruotanti intorno alla grande guerra, con un ritrovato frammento di Il sopravvissuto di Genina, un film scritto dalla sua attrice Bianca Virginia Camagni e un notevole documentario anonimo, La rieducazione professionale degli invalidi di guerra a Bologna, che non contiene immagini atroci di mutilazioni come quelle rimontate da Gianikian-Ricci Lucchi ma ne è un seguito tuttavia onesto, non propagandistico ma di autentica pietas.

Ancora qualche parola sulla rassegna dell’iraniano Ebrahim Golestan: negli incontri l’autore poteva apparire brusco (lo sono tutti i grandi autori di pochi film che abbiamo incontrato: Nico Papatakis, Vittorio De Seta, Jacques Baratier…) ma con ciò ci trasmetteva la giusta consapevolezza di aver fatto un grande cinema solo minimamente riconosciuto. Il suo lungometraggio Khesht o ayaneh è uno dei capolavori assoluti degli anni ’60, in cui persino le opere così formalizzate di un Resnais e di un Antonioni trovano qualcosa che le eccede. Un film che andrebbe rivisto in una personale più completa del regista.

La rassegna del cinema sovietico del disgelo, curata da Olaf Möller e Peter Bagrov, aveva presentato l’anno scorso le opere più radicate nel cinema d’epoca staliniana, con alcuni capolavori tardi di Ermler, Pudovkin e altri autori da riscoprire oltre i canoni. Quest’anno ci si spostava sui film tra il 1956 (inizio ufficiale della destalinizzazione krusceviana al XX congresso del Pcus) e il 1959 (tuttavia non abbiamo potuto vedere il film di questa fine anni ’50, Devocka iscet otca di Lev Golub).

La rassegna ha il merito di rivelare il momento forse più autentico del rinnovamento, che nella seconda fase ancora krusceviana, a inizio anni ’60, troverà una pur interessante stereotipizzazione nelle opere che nella memoria leghiamo al «cinema del disgelo», quelle di Mikhail Romm e di Grigorij Cukhraj, del rinnovato Kalatozov, di Alov e Naumov, fino al primo Tarkovskij, rispetto alle quali i riesami storiografici di Buttafava e Eisenschitz hanno giustamente privilegiato un cinema meno orientato dal potere, quello di Chuciev, Sepit’ko, Danelija, Klimov, Panfilov, Averbakh… Degli autori sin qui citati, solo la coppia Alov-Naumov era presente nella selezione di Bologna. Vi emergevano però tre altri autori meno conosciuti.

Raznye sud’by di Leonid Lukov e Dom, v kotorom ja zivu di Lev Kulidzanov (in coregia con Jakov Segel’) sono imperniati su alcuni personaggi femminili di grande flagranza, interpretati da alcune di quelle attrici che rendono il cinema russo in ogni epoca di particolare fascino fisico.

Ricordo che leggendo a suo tempo il celebrato L’insostenibile leggerezza dell’essere del ceco Milan Kundera, mi fermai con più di una perplessità sul passaggio in cui contrapponeva la bellezza delle donne ceche a quelle russe «dalle gambe tozze» (se ben ricordo l’espressione), e questa contrapposizione etnica, peraltro poco veritiera, mi ridemensionò subito lo scrittore: e infatti ne era poi meglio la versione cinematografica apolide di Philip Kaufman, che alle presenze femminili si rivolgeva con più sensibilità, e completava il quadro di quell’altro territorio russo rivelato da autori occidentali, da Alessandrini e Genina in Italia (con gli esuli Strizhevskij e Turzhanskij), senza dimenticare il geniale La promessa di Zurlini, a David Lean, e ai più tardi americani Cimino e Milius attratti dalla slavitudine russa.

Sia nel film di Lukov che in quello di Kulidzanov (che anticipa in meglio la linea Cukhraj-Kalatozov) si arriva a un momento in cui l’interprete femminile più magnetica s’impossessa del film oltre al dominio dell’ideologia e del sociale. Nel finale del primo essa si rivolge allo spettatore (manca poco allo sguardo in macchina di Harriet Anderssson in Bergman e Wysbar) interrogandolo con la giustezza del suo potere fascinatorio oltre ogni altra istanza.

Ma indubbiamente il film rivelazione è stato il terzo, Cetvero di Vasilij Ordynskij (e Möller conferma che è di lui che vorrebbe fare una personale), film del 1957 che sembra senza età pur essendo fortemente radicato nell’epopea della tecnologizzazione sovietica che porterà ai voli spaziali e a una gara apolitica con l’Occidente. Ma in questo film inquieto e inquietante non siamo nemmeno allo scientismo «borghese» di Mikhail Romm, siamo piuttosto alle istanze dreyeriane del «kozmizm» di Fiodorov che precedette il comunismo leniniano, e le immagini di cavie del film ci ricordano quelle del Rossellini di La paura e del Guareschi «apocalittico di destra» di La rabbia.

Il film di Ordynskij sancisce al livello più alto che il cinema sovietico ha ecceduto l’ideologia, anche nei classici di Ejzenstein, Dovzenko, Pudovkin, Room, Barnet, Ermler, Vertov… insomma Ordynskij potrebbe diventare l’ultimo dei classici sovietici prima dei postkrusceviani Chuciev, Sepit’ko, Averbakh…

E nel contempo Bologna, presentando tre capolavori di Evgenij Bauer nella rassegna sul cinema del 1916, ci ha rammentato che il cinema russo prerivoluzionario (anche col Protazanov ben indagato a Pordenone) non è stato inferiore a quello sovietico: la sovietizzazione, aldilà delle derive criminali del potere, è stata un’evidenziazione giusta e necessaria delle istanze più profonde dell’arte russa (musica e pittura comprese).