Sciopero! Il primo grande film di Sergej Eizenstein. Sciopero è il diritto inalienabile di chi lavora di astenersi dalla fatica in nome di un obiettivo importante o contro un sopruso o la negazione di un diritto. Sciopero oggi alla Rai, evento che rende più vera e realistica l’immagine di un’azienda spesso confinata al territorio dei circenses. Mentre è e dovrebbe essere il crocevia dell’industria culturale italiana e luogo per eccellenza di conflitto politico.

La giornata di lotta non è unitaria, a causa dell’indebolimento dello schieramento sociale che ha sempre sorretto un’idea seria e riformata del servizio pubblico. Peccato, sarebbe stato meglio che il fronte rimanesse unito, declinando assieme le possibili iniziative da prendere contro una maldestra sciabolata del governo. È vero che Matteo Renzi è in luna di miele con il popolo italiano e con i media. Con quella bocca può dire ciò che vuole, recitava un vecchio Carosello. Appunto. Ma la storia è lunga e il cappa e spada senza strategia si pagherà presto. Oggi, un taglio imposto dal decreto Irpef di 150 milioni e un caldo invito a mettere sul mercato la gioielleria di famiglia – una parte degli impianti di Rai-Way. Domani chissà.

Senza linea, i tagli non finiscono mai, per parafrasare Eduardo De Filippo. Anche perché mentre si dibatte con inquietante eccesso di zelo su quanto è moderno e innovativo amputare qualche pezzo della Rai, il vertice aziendale – investito forse da una rinnovata sindrome di Stoccolma – non polemizza. Anzi. Sta per varare, si dice, la curiosa «Rai commerciale», vale a dire l’accorpamento della vecchia struttura di Rai trade con la società di distribuzione cinematografica e persino con il settore delle Convenzioni. Insomma, una sorta di nuova Rai da lanciare tra le grandezze del Capitale, lasciando l’altra metà della mela nell’«inferno» degli obblighi del contratto di servizio. Intendiamoci, nulla di nuovo sotto il sole. Il progetto, anticipato diverse settimane fa da uno dei brillanti articoli di Aldo Fontanarosa su la Repubblica, ricalca la sbandata privatistica che affascinò anche qualche componente del centrosinistra al governo attorno agli anni ’90 inoltrati. Allora, il disegno delle «divisioni» anticipava come i lampi con i tuoni la vendita di una bella quota della società. Tutto si fermò, perché in Italia più che di poteri forti è opportuno parlare di debolezza dei poteri. E il capitalismo senza capitale non va da nessuna parte.

Eppure, vent’anni dopo ritornano gli stessi aneliti ingialliti: reti con e senza pubblicità, missioni differenziate. Materiali dell’era analogica, oggi segnati inesorabilmente dal tempo. È il contenuto da aggiornare, prima di sperdersi nel labirinto del contenitore. È il digitale, bellezza! C’è la rete. Nessun dorma. Da qui passa il rinnovo della Convenzione con lo Stato: piattaforma etica e culturale, prima che normativa.

Spunti levigati dalla discussione passata esistono e tornano utili. Si rileggano, ad esempio, i materiali del bel convegno organizzato nel 2006 a Milano dall’Istituto di ricerca sulla comunicazione A.Gemelli e C. Musatti. Un manifesto persino esauriente il titolo della relazione di Franco Rositi: «Un disegno politico per liberare la Rai dalla politica». Ecco, un programma politico, laddove con quest’ultimo termine si intenda la polis. Il servizio pubblico o sarà questo o non sarà. È un tema serio, non un campo giochi.

Lo sciopero servirà a ricostruire un filo di discorso? La speranza non muore mai. E tenga a mente il governo che, quando si intende ri-formare con coraggio, serve investire, non tagliare. Poi, magari si risparmia. Il governo britannico, quando rinnova la Royal Charter su cui si basa il rapporto con la Bbc, fa un «Libro verde». Lo chiami pure viola il libro, presidente Renzi: ma ci pensi.