Sarà che ai tempi della mia infanzia i regali si ricevevano il giorno di Santa Lucia (13 dicembre), sarà che essendo non credente ho sempre evitato la messa di mezzanotte, sarà che ho sviluppato un’autentica allergia per i regali a comando, sempre più sento il Natale come una dittatura commerciale. Più ci si avvicina al 25 dicembre, più si sprofonda nella melassa di lustrini, fiocchi, bancarelle, canzoncine, consigli per gli acquisti. Se per molti commercianti questi sono fra i giorni migliori dell’anno, per tanti altri diventano un grattacapo.

 

 

Qualche giorno fa, passando fra le bancarelle attorno al Duomo di Milano, fra sciarpe di presunto cachemire, bigiotteria, cibi, ninnoli, ho sentito una ragazza dire: «Devo ancora comprare il regalo per mia mamma, mio padre, mio fratello, due cugine, mia zia, mia cognata e non posso spendere più di 50 euro».

Mi è venuto da dirle: ne puoi uscire dignitosamente solo con dei libri, ma questo funziona fra persone che leggono, sport non fra i più praticati in Italia. Oppure c’è un’altra soluzione, arrivare alla cena della vigilia o al pranzo di Natale con le mani in scrulòn, che a Parma vuol dire penzoloni e vuote, dichiarando: «Quest’anno faccio lo sciopero del regalo».

 

 

 

 

 

Chi non ha la tempra per sfidare le convenzioni, potrebbe fare come quel signore che, dovendo ogni anno partecipare a un’affollatissima cena di famiglia composta da oltre trenta persone, e non avendo voglia di scervellarsi per ognuno di loro, l’aveva risolta così: sceglieva un articolo e lo regalava uguale a tutti quanti. Un anno optò per una cassa di mandarini, poi fu un calendario, un orologio, un cesto di frutta secca, una scelta di vini. Che il destinatario avesse due o ottant’anni, il regalo era lo stesso: «Tanto – diceva – un bambino ha sempre dei genitori. Se il dono non va bene per lui, lo useranno i parenti».

 

 

Per la cena del suo studio, un amico architetto si era inventato la riffa cretina. Ognuno doveva portare la cosa più inutile o trash che trovava, poi si estraeva a sorte. Ho partecipato a un paio di edizioni e ho visto girare uno scopino da cesso a forma di pinguino, un libro su cimiteri (apprezzatissimo dalla destinataria che da mesi cercava proprio una cosa così), un vibratore che emetteva urletti in cinese (pescato dalla socia più anziana che arrossì dicendo “Siete proprio scemi» ma poi lo mise subito in borsa), un grattaschiena, dei fermapantaloni da bicicletta (sorteggiati da uno che si muoveva solo in auto), dei mantieni forma per reggiseni imbottiti (che lì dentro nessuno portava), una quantità di accendini dalle forme priapiche.

Lo scambio dei regali era il momento più atteso della serata e non ho mai visto persone divertirsi così aprendo un pacchetto, anche perché dopo l’estrazione cominciava il baratto, sicuri che si sarebbe tornati a casa con una stronzata, ma questo non importava a nessuno perché il bello era il gioco in sé e non l’oggetto. Certo, era una roba goliardica, ma niente vieta di inventare una versione più intellettuale, o di mandare un invito che dice: «Si accettano solo doni fatti con le vostre mani».

 

 

George Perec aveva avuto un’idea da par suo. Dal 1970 all’82, anno della morte, scriveva gli auguri sotto forma di brevi testi basati su variazioni omofoniche, li faceva stampare in un centinaio di copie e li spediva agli amici. Oggi sono raccolti in un volumetto che si intitola Voeux (Seuil). L’ultima serie, Cocktail Queneau, esordisce con questo biglietto: «Noi dell’OuLiPo/alle quenelles di Cocteau/ preferiamo i cocktail di Queneau (miscela di san pellegrino e schweppes)». Praticamente acqua. Alla salute di Cocteau.