Il desolante spettacolo del braccio di ferro tra la Grecia di Syriza e l’Europa a trazione tedesca ha incoraggiato diversi commentatori a rinverdire classici anatemi. La ricetta è parsa troppo ghiotta (e semplice). Rieccola, resuscitata dalle proprie ceneri, la perenne Germania assetata di dominio. Che concepisce se stessa come centro del mondo e gli altri popoli come propri sudditi. Rieccoli, sotto mentite spoglie, i magnati dell’imperialismo teutomane, nostalgici dell’egemonia germanica, barricati in una proverbiale superbia.

Il passato ritorna, almeno nei commenti. La Germania, si dice, ha vizi antichi – e si pensa originari e congeniti. È incapace di intendere la politica come dialogo nel rispetto delle ragioni altrui. La concepisce come un’arma al servizio di un’insaziabile volontà di potenza. Si riaprono i dossier. La ferocia dell’occupazione tedesca, il progettato nuovo ordine europeo fondato sulla gerarchia «razziale», i debiti di guerra dimezzati con l’accordo di Londra del 1953. Il carico delle passioni scatenate in queste settimane è tale che non si resiste alla tentazione di arditi paralleli. E il falco Schäuble, con quel suo muso duro, ha anche il fisico del ruolo. Quanti lo hanno immaginato in divisa, sotto le insegne dell’aquila, con il braccio steso nel saluto nazista?

Anche in Germania, del resto, si ha paura che i fantasmi ritornino. Benché il ministro delle finanze goda di un robusto consenso (lui sì che ci tutela, che difende i nostri soldi, i frutti del nostro duro lavoro), il Bundestag venerdì scorso si è spaccato sull’accordo con la Grecia e la coalizione al governo ha registrato un’emorragia di voti. Alcuni giornali hanno apertamente accusato Schäuble e la Merkel di avere distrutto la buona immagine della Germania pacifica e democratica, riattivando il ricordo di un passato orribile. Insomma non se ne esce. Come in un gioco di ruolo i protagonisti del conflitto sembrano risucchiati dalla cupa storia del Novecento e dal suo eterno ritorno. Al cospetto del quale il concreto prodursi degli eventi appare irrilevante, una semplice variazione sul tema.

Ma è proprio così? O non dovremmo piuttosto guardarci da una coazione a ripetere che semplifica il quadro fino a deformarlo impedendo di individuare le vere cause dei conflitti? E non dovremmo altresì – senza nulla togliere delle responsabilità tedesche – chiederci se il nostro rapporto con la Germania non sia condizionato dalle passioni, da un’antipatia non scevra da invidia, forse anche dalla rabbia nei confronti di un popolo capace di risollevarsi dalle proprie macerie e di riconquistare sempre di nuovo posizioni dominanti?

Sta di fatto che lo scenario raccomanda di evitare giudizi unilaterali. Sarebbe per un verso assurdo negare che l’intera leadership tedesca – compresa la socialdemocrazia – manifesta pulsioni autoritarie. Ha ragione chi rinfaccia a Schäuble di voler ripetere con la Grecia il copione dell’annessione dei Länder orientali. Pervade il grande capitale tedesco una vocazione imperialistica e coloniale che si è fatta valere nella costruzione dell’unione monetaria e che si riafferma nella pratica mercantilistica, in spregio di ogni limite al surplus commerciale. In questa costituzione materiale dello spirito tedesco la vicenda greca trova una perfetta chiave di lettura.

La Grecia – simbolo di tutti i paesi superindebitati – è colonia e colonia, dentro o fuori dall’eurozona, deve rimanere. Deve mettere da parte non soltanto ogni velleità simmetrica, quasi che l’Unione europea fosse un’unità tra pari, ma anche (e la lezione valga anche per gli altri, a cominciare dall’inquieta Spagna) qualsiasi illusione critica. Non c’è alternativa, spiegò una grande maestra del pensiero unico. Sicché la si smetta una volta per tutte con quelle pagliacciate dei referendum, come se competesse ai cittadini decidere il da farsi a Bruxelles o a Francoforte.

Pare che Schäuble abbia ripetuto in questi mesi che le elezioni in un paese europeo non cambiano niente, quale che sia l’esito, rispetto agli accordi in sede comunitaria. E che (in un articolo sulla Faz del giugno 2000) abbia definito «una querelle accademica» la questione se l’Europa debba essere uno Stato federale o una federazione di Stati. Ecco, questa insofferenza per la democrazia e questo conclamato disprezzo per i paesi paria sono indiscutibilmente una faccia della medaglia, di cui sarebbe sciocco non tenere conto. Ma poi c’è l’altra faccia, non meno importante.

Bisognerebbe chiedersi se altri paesi europei si comporterebbero diversamente: se, da una posizione dominante, si disporrebbero altrimenti nei confronti degli anelli deboli della catena. È lecito dubitarne. La Francia per esempio ha sempre ragionato su un’Europa a due velocità, ha speculato sulla miseria greca e ha sempre lavorato – tra alti e bassi – a mantenere un rapporto privilegiato con Berlino, con cui ha condiviso eccezioni e deroghe alle «regole ferree» dell’Unione.

L’altra questione che ci si deve porre riguarda allora il complicato intreccio che tiene insieme la logica comunitaria e la dimensione nazionale dei processi. E che, su questa base contraddittoria, riproduce dinamiche gerarchiche e il paradosso strutturale di un accentramento della sovranità di fatto (in capo ai paesi dominanti e alle tecno-burocrazie) che esalta (nei forti) la boria nazionalistica e al tempo stesso alimenta (nei deboli) rancori e sogni di révanche.

C’è insomma il problema tedesco, ma esso va posto dentro il più ampio e complesso problema europeo. Che a sua volta non si può intendere enucleandolo dalla questione delle questioni, sistematicamente rimossa: il nesso costitutivo di dominazione tra Nord e Sud (tra centro e periferie) che il rapporto capitalistico di produzione instaura e riproduce.

L’Europa unita avrebbe potuto contrastare la riproduzione di rapporti ineguali se avesse mantenuto nel proprio codice funzionale le istanze solidaristiche, potenzialmente antisistemiche, che ne avevano in parte informato la costituzione. Sappiamo invece com’è andata la storia, e ora siamo al dunque. La resa dei conti con la Grecia ha messo in scena il grande tema dei rapporti di forza sociali, politici e internazionali che articolano, sullo sfondo della globalizzazione finanziaria e della crisi, il sistema di potere capitalistico in Europa. È questo il campo su cui occorre stare e lavorare criticamente. Lasciando sullo sfondo futili analogie storiche che rischiano di banalizzare il quadro.