Andiamo a vedere il nuovo film di Godard. Un giorno, quest’espressione non avrà più senso ed è un privilegio d’anagrafe quello di vivere ancora in un epoca in cui la si può ancora pronunciare. Ci andiamo con occhiali nuovi, occhiali per entrare nella sua 3D (anche se molte sale probabilmente lo proietteranno in 2D). Non è la prima volta che lo facciamo. La 3D è diventata ormai un’abitudine legata al cinema di hollywoodiano. Alcuni registi del cinema d’autore se ne sono appropriati, Werner Herzog e Wim Wender, con (rispettivamente) grandi e pessimi risultati. Ma che cosa vuol dire, per Godard, farci entrare in una terza dimensione ?

 

 

La dimensione propria dell’uomo, in quanto ente generico, è la storia. E Godard, in questo suo nuovo film, ci confronta brutalmente con una sua interpretazione del presente storico. Hitler, ci dice, ha perso sul campo di battaglia ma la filosofia dell’hitlerismo ha finito per vincere su un terreno ben più essenziale, il terreno del pensiero, vale a dire, il terreno delle immagini. La televisione è il luogo dove l’ideologia razzista si è solidificata fino a diventare puro linguaggio.

 

 

È una affermazione che Godard non dimostra ma che viene presentata come autoevidente. Chi oserebbe negare che il linguaggio televisivo, prima ancora di veicolare un contenuto particolare, inquadra l’essere umano dentro un destino biologico prederminato ? Quando l’ideologia è diventata linguaggio, ogni contenuto, quale esso sia, è pensato all’interno di una certa idea dell’uomo. La questione che si pone immediatamente è: come emanciparsi da questo linguaggio ?

 

 

In altri articoli dedicati a Adieu au Langage, abbiamo già cercato di suggerire come, per Godard, opporsi a qualcosa non vuol dire prendere la direzione opposta ma ingaggiare una lotta sul terreno stesso di ciò contro cui ci si confronta. Questo perché, al cinema, opporre due immagini vuol dire, per forza di cose, legarle insieme, montarle, renderle in qualche modo solidali l’una all’altra. Anche l’immagine che Godard vuole indicarci, la nuova dimensione alla quale vuole farci accedere, si muoverà a partire dall’immagine che egli intende criticare.

 

 

 

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Ecco che ci troviamo davanti ad una situazione caricaturale, quasi triviale. Il film è costituito da tre personaggi: una donna, un uomo e un cane. Potremmo trovarci nella più banale delle sceneggiature che la televisione, per solito, ci presenta. Ma è proprio questo solito, questo ordinario che Godard cerca di ribaltare dall’interno. Lo fa partendo, come si diceva, da una Storia, grande e terribile, e conducendoci immediatamente in una dimensione inversa: una semplice, ordinaria, storia d’amore, con i suoi conflitti, le sue paci, le sue trincee quotidiane. Dentro questa storia in miniatura si aprono delle sceneggiature infinite. Non solo perché nell’appartamento campeggia lo schermo di una televisione che, come una stella, attira magneticamente tutti gli sguardi, ma perché in quello schermo la coppia può guardarsi allo specchio e riconoscere, nei film trasmessi, la propria stessa storia, la storia di quasi tutti i film di Godard.

 

 

Il dileguare della Storia e l’ingresso dentro questa dimensione quotidiana e ripetitiva, in cui nulla sembra poter essere pensato se non in un linguaggio imposto, è il punto in cui ci troviamo, in cui si trova l’Europa. Ma proprio perché siamo immersi in questo linguaggio, Godard ha dovuto fare un lungo viaggio, un lungo giro, per farci giungere a questo grado di riflessione.
Il viaggio era cominciato con Film Socialisme, che era appunto un film sul movimento della storia nel suo scontro con il movimento della natura. Il battello che attraversava il Mediterraneo era precisamente la metafora di questo doppio movimento in cui si attualizza lo spirito storico. Adieu au Langage è l’approdo ultimo di quel viaggio novecentesco. Approdo che corrisponde ad un dileguare del movimento storico. Godard stesso, la cui presenza si fa sentire nel film precedente, qui dilegua, scompare. Oppure appare nella forma del cane – come ha detto lui stesso: il cane sono io.

 

 

Il tentativo di Adieu au langage è infatti quello di un cinema che si mette dalla parte di un animale di compagnia. Quest’animale è forse l’unico che potrebbe soffrire della scomparsa dell’uomo, scomparsa non fisica ma metafisica. Lo sguardo di quest’animale di compagnia indica il cammino verso la dimensione nella quale Godard ci invita a penetrare, come se da lui potessimo apprendere un linguaggio nuovo, un linguaggio inusitato, la 3D, che nel film arriva raramente, come un dono o un’improvvisa apertura di significato. Praticamente, si manifesta come una sorta di vertiginosa scissione dell’immagine in due immagini separate e sovrapposte che panoramicano una sull’altra (coprendo con una mano la parte destra degli occhiali 3D se ne vede una e, per vedere l’altra, si deve coprire la parte sinistra). Come se Godard cercasse nella tecnica, nella 3D appunto, un’antidoto al decadere della tensione tra quelle due immagini, la naturale e l’umana, dal cui scontro si produce il movimento storico.

 

 

La nascita di questo linguaggio non è per il momento che un vagito. Mentre il cane Roxy se ne va scodinzolando in cerca dell’uomo, si sente la voce di un neonato. La storia ci ha portato ad un punto in cui il pensiero si è inaridito fino a confondere l’umanità con un destino biologico. I neri sono gli immigrati. I rom sono i ladri. I bianchi sono i padroni. L’uomo, che nella sua umanità non è altro che un essere generico, ha finito per pensarsi come una specie, come una razza. Quest’immagine infame, che è l’impensato di tutti i pensieri del linguaggio ordinario, televisivo, quotidiano, va cancellata. Ma poiché non possiamo uscire dal linguaggio se non attraverso il linguaggio stesso, Godard ci invita a fare fronte con il cane, un animale che, al contrario di noi, guarda all’uomo solo in quanto uomo. Come ricorda la canzone di Pino Masi, che conclude il film: uniti vinceremo.