Passa il 3 settembre in Sala Grande, fuori concorso, il nuovo film dell’austriaco Ulrich Seidl, Safari. Noto in Italia per Canicola (2001, Gran Premio alla giuria a Venezia, e unico distribuito nelle sale italiane), il regista, sceneggiatore e produttore, è più conosciuto in Europa e ai fan italiani che invano aspettano i suoi film nelle sale (o almeno in dvd), l’autore comunica che a fine anno uscirà un cofanetto con l’opera omnia dotata di sottotitoli in inglese (acquistabile in rete). Sfogliare il press book produce impressioni simili a quelle dei libricini le cui pagine con disegni, sfogliate rapidamente, producono l’effetto di un cartone animato: qui è piuttosto un «rapidamente lento» passaggio di quadri nello stile del film Im Keller (fuori concorso al Lido nel 2014), conducendomi subito nel pieno dell’atmosfera di un tipico safari. Ho aperto così la nostra conversazione telefonica, e il regista (anche produttore con la sua Ulrich Seidl Film Produktion) spiega che collabora da vent’anni con questo studio grafico, il quale elabora per ogni film un layout adatto, con grande cura nei dettagli. Una rarità. Safari esce in Austria subito dopo Venezia, il 16 settembre con lo Stadtkino Verleih (in parte comunale), e il prossimo festival sarà Toronto.

Da dove prende avvio il tema del film?
Avevo numerosi progetti riguardanti il turismo in testa, alcuni li avevo anche proposti a diverse televisioni, ma non se n’era mai fatto nulla. Poi, nel film sulle cantine, è apparsa una coppia che ha una notevole raccolta di trofei di caccia, e da lì era scattata la scintilla: vacanza e caccia! Sono partito con le ricerche perché convinto di aver trovato un ottimo binomio. La struttura di Safari è assolutamente diversa rispetto al film precedente, e l’elemento forse più interessante è il principio stilistico per cui tutte le scene di caccia sono girate con macchina a mano: per meglio seguire da vicino i nostri protagonisti, che si muovono a passo felpato, col fucile puntato, in mezzo alla savana africana. (Le riprese sono fatte in Namibia e Sudafrica, benché i luoghi non siano specificati e Seidl preferisce far intendere un non luogo nella grande Africa, ndr). Ciò serve a registrare le loro emozioni mentre inseguono l’animale avvistato, quando tirano, sparano il colpo e soprattutto nel dopo. Ne escono immagini mosse dai movimenti compiuti con la macchina da presa, che creano tensione, anche narrativa, pari a quella percepita dagli stessi cacciatori. Non avevo idea come realizzarla, è venuto fuori così…

Le scenette in cui si vedono i cacciatori vestiti come tali da film hollywoodiani, sono messinscena recitata?
Si tratta di cosiddette confessioni dei diversi protagonisti del film: essi rispondono a una serie di domande, uguali per tutti, indicate da me. Unica linea guida, il resto è tutta farina del loro sacco, nel senso che ciò che dicono sono le loro risposte improvvisate alle domande di cui sopra: che cosa succede dentro di me, prima, durante e dopo lo sparo?

L’immagine-shock è per me quella in cui si vedono tanti trofei attaccati a una parete, in colori chiari e scuri, con in mezzo una ragazza nera, in piedi, sguardo frontale, ossia dritto verso chi guarda. Magnificamente integrata a livello formale e dei colori. A mio avviso è una sintesi superlativa di tutti i trofei di caccia, compresa quella molto praticata nelle vacanze esotiche alle donne-ragazze-prostitute, e volendo ampliare il discorso nel senso storico politico, ci sono la colonizzazione e l’onda di ritorno degli immigrati…
Le interpretazioni sono molteplici, fatto è che i neri hanno un ruolo marginale in questa storia. Potrebbero essere loro i re del safari essendo capaci di avvistare un animale ben prima di qualsiasi bianco. Di sicuro sarebbero cacciatori e guide molto migliori, ma qui si limitano a lavorare la carne dell’animale ucciso. Lavorano nel ranch, li vediamo, ma non li sentiamo parlare. Non ho dato loro la voce. Volutamente. Proprio perché in questo modo «traducono» il rapporto tra gli europei e l’Africa. Il colonialismo non è finito ma continua sotto altre forme, che oggi sono il turismo e il denaro. Un altro tipo di neocolonialismo. Tornando all’immagine da lei citata, è nata per caso presso un imbalsamatore, dove lavorano operai neri, anche donne come quella della foto. Ce ne sono tanti, anzi, hanno creato vere e proprie imprese con tanti posti di lavoro. Lì rifiniscono i trofei, poi spediti a casa dei singoli cacciatori. Ricoprono un ruolo da subordinati rispetto ai bianchi che comandano, e ciò riporta al meccanismo con cui le multinazionali ricattano i politici dei paesi africani. Non pagano le tasse perché creano tanti posti di lavoro…

Come e dove sono stati creati i set per le riflessioni/confessioni dei vari protagonisti?
In loco, dove ho individuato siti adatti per costruire scene adatte alla tipologia di personaggio con l’aiuto di utensili trovati lì per lì: tende, poltrone, trofei e altro. Tutti rispondono alle stesse domande, ad esempio: «a quale animale vorresti sparare?» e il primo dice l’elefante, il secondo lo zebra, perché l’elefante è troppo grosso, il terzo un leopardo, e via dicendo. Poi si arriva allo sparo, catarsi che scioglie ogni tensione, per giungere infine alle congratulazioni.

Tenendo conto per altro dell’ondata vegan che ha Colpisce questo sguardo inverso, lo stesso che crea l’impressione di sotto-sopra nelle cartine del Mediterraneo in cui l’Europa è vista dall’alto della costa africana, invertendo punto di vista e percezione. Penso alle scene di caccia e soprattutto alle foto trofeo con l’animale morto, asetticamente pulito, mentre sangue e interiora spolpate si vedono soltanto nel mattatoio. Tenendo conto peraltro dell’ondata vegan che ha investito l’Europa?
Durante la mia infanzia e adolescenza passavo le vacanze da mia nonna in campagna, dove ogni anno si ammazzava il maiale. Non ho problemi con l’uccisione di animali per l’alimentazione. Oggi, in Europa il sangue non si vede, è tabù, come la morte. La gente compra la carne pulita, confezionata e plastificata. Per me è normale macellare un animale allevato correttamente, ma qui siamo nell’ambito di uno sport, la carne non interessa, anzi, viene venduta, l’importante è il trofeo!

Mi hanno colpito alcune frasi riportate nel press book, del tipo «noi aiutiamo questi animali a vivere bene»…
Cercano di giustificare ciò che fanno, se le raccontano. Qualcuno dice che sono animali di una certa età, sapendo benissimo che è falso. Va detto che in tedesco esiste un linguaggio venatorio del cacciatore, per cui ad esempio l’animale è «un pezzo», parola che aiuta a oggettivizzare un essere vivente (in quello italiano è detto «il selvatico», ndr).
L’elenco di parole nel press book corrisponde dunque a un glossario minimo, dove per altro mi viene in mente che anche nei lager i comandanti delle SS chiedevano quanti «pezzi» fossero arrivati col nuovo treno…
Certo, altro esempio, terrificante, di allontanare l’essenza umana a favore dell’oggettività. I «pezzi» non sono più esseri viventi, così il «sangue» è «sudore», la «coperta» è la pelle pelosa, eccetera.