Colin Ward è stato non solo un protagonista di spicco del movimento anarchico britannico, ma anche uno studioso attento dell’architettura e della città. Responsabile negli anni Settanta del settore educazione del Town and Country Planning Association si dedicò subito dopo la guerra all’insegnamento e a progetti di edilizia sociale nello studio Shepheard & Epstein: il primo nel 1940 collaborò con Patrick Abercrombie al Greater London Plan. Nonostante già in parte conoscessimo il suo pensiero in merito all’abitare e allo spazio urbano attraverso i suoi saggi pubblicati da elèuthera, solo ora la casa editrice milanese con il titolo Architettura del dissenso (pp. 159, euro 14) ci offre alla lettura una raccolta ragionata dei suoi interventi.
Curati da Giacomo Borella (anche traduttore con Achille Brambilla) gli scritti di Ward hanno il pregio di spiegare, con limpida esposizione, i limiti e le contraddizioni che reggono il governo della città nella società capitalistica.

La «ricerca empirica focalizzata su specifici problemi sociali» si fonda in lui su un’approfondita comprensione delle ragioni storiche e economiche che nel corso del tempo hanno modificato i luoghi. Solo così si può attuare per Ward un «programma costruttivo» utile per i cittadini, ciò che ha definito il suo metodo «anarchismo pragmatico». Lo evidenziano le pagine di Anarchy, il mensile da lui fondato nel 1961 e diretto fino al 1970, dove è dibattuta non solo la teoria contro la «vuota retorica della rivoluzione», ma soprattutto l’anarchismo come prassi, libera scelta ideologica che deve fornire soluzioni praticabili per migliorare le condizioni di vita delle persone.

Queste si realizzano sempre seguendo le regole dell’azione diretta individuale e la costruzione di relazioni mutualistiche all’interno di ogni comunità. Solo, infatti, con la raggiunta «auto-determinazione sociale» si possono ottenere quei risultati benefici che né il potere statale né il libero mercato potrebbero mai garantire. Qual è il significato del mettersi in ascolto con la gente è dato dal racconto su Bethnal Green, sobborgo orientale di Londra, dove negli anni ’60 il London County Council realizza una serie di prefabbricati temporanei in attesa di assegnare le nuove case popolari: edifici alti e distanziati nel rispetto dei regolamenti, ma privi di quella «domesticità» che qualifica le abitazioni dell’antico insediamento e persino i primi prefabbricati del dopoguerra.

Nell’analisi di questo distretto dell’est londinese Ward pone la questione di come costruire quartieri ad alta densità urbana dotati di «amenità, intimità e senso di riparo che le persone insistono ad associare con la parola casa». L’eredità del Movimento Moderno è messa radicalmente in discussione: troppo geometrici gli schemi planimetrici, eccessivamente meccanici e formalistici i suoi linguaggi. Gli architetti che hanno passivamente assecondato le richieste del libero mercato si sono trasformati in «professionisti del computer addetti al packaging o in prime donne addette alla gioielleria». La sola alternativa è quella vernacolare poiché una ragione ci deve pur essere se «la maggior parte degli edifici che ci sono al mondo non è il risultato del lavoro di architetti di professione», come ha dimostrato Bernard Rudofsky con il suo Architecture Without Architects (1964). Ora l’architettura vernacolare non va intesa così come l’ha strumentalmente interpretata il Postmodernismo: i «neo-vernacolari» combinano solo «qualcosa di simile a Disneyland». Le autentiche esperienze che rimandano alle tradizioni costruttive e abitative sono quelle che per Ward hanno svolto Hassan Fathy in Egitto o Charles Correa in India. Nei paesi sviluppati, infatti, «l’architettura vernacolare è morta» e ogni sua riproposizione scade di solito nel grottesco. Solo la controcultura gli è d’antidoto. In un prossimo futuro, dall’ecologia verrà una concreta alternativa poiché dovremmo fare i conti con la crisi dell’energia e delle risorse.

L’ambiente artificiale dell’uomo dovrà sempre più essere «adattabile e malleabile», progettato per durare e disponibile a ogni trasformazione che si terrà necessaria nel tempo, poiché «la scuola è anche un’officina, l’orto è anche una scuola di musica». Infine, gli spazi dell’abitare, del lavoro o del tempo libero, per essere «conviviali» dovranno «combinarsi» non solo in nuove tipologie ma presupporre la partecipazione diretta degli utenti: non sono «i progettisti a determinare i significati e le aspettative altrui». Quest’ultima considerazione introduce un tema centrale del pensiero critico di Ward che riguarda la pretesa indipendenza degli architetti: una categoria di professionisti che generalmente tendono al mantenimento dello status quo e nella quale solo una élite «manipola» volumi e spazi.

Sono molti i riferimenti che Ward cita per sostenere le sue tesi. Si va da Godwin a Kropotkin per il pensiero libertario, da Thoreau a Mumford per le teorie del comunitarismo, da Buber a Nicholson per quelle filosofiche e pedagogiche, Howard, Geddes e Unwin i suoi riferimenti per l’urbanistica, ma Walter Segal e William Richard Lethaby – «pur lontanissimi tra loro» per generazione e linguaggio – gli architetti ai quali si ispira. Entrambi antiaccademici, pragmatici, competenti sia nel disegno sia nella tecnica del costruire (Segal è l’inventore di un originale sistema di prefabbricazione in legno), ma soprattutto dotati di quella «coscienza critica indipendente» che per Ward è la dote più importante per chi è chiamato ad aiutare gli altri.
Lui ne era in possesso e perciò ha potuto guardare in modo diverso ai «paesaggi improvvisati» intorno alla città e agli insediamenti spontanei costruiti in condizioni di necessità: dalle lottizzazioni sulla costa britannica (plotlands) alle baraccopoli di ogni parte del mondo. Forse un’«Arcadia per tutti» un po’ sbiadita rispetto a quella immaginata ma «per molta gente la migliore disponibile».