Nel frullatutto che è il Torino Film Festival numero 33 – duecento titoli sbandierati con orgoglio bulimico sulla riga delle primissime edizioni del Festival di Roma che l’originale ha abbandonato (per fortuna) da tempo, i film finiscono per perdersi nei rivoli delle sezioni (e sotto). La bulimia infatti, e lo sappiamo, è una malattia seria. E Torino non è Berlino, che pare il modello di riferimento, pure se recitava secoli fa un film (di Vincenzo Badolisani) I ragazzi di Torino sognano Tokyo e vanno e a Berlino. Oggi quei ragazzi saranno invecchiati, e i tempi anche festivalieri sono altri. Senza dimenticare che nella bulimia la Berlinale, specie in alcune sezioni autofagocitatesi ha perduto di smalto, sfrontatezza, capacità di veicolare progetto.

 
Perché è questa oggi la scommessa di un festival della taglia torinese – peraltro la Berlinale è categoria «big» come Cannes e Venezia, con la differenza che a Berlino, metropoli attiva, il pubblico è «vero» e non di soli accreditati. Anche a Torino, sicuramente, ma la città è piccola, il mercato italiano è quello che è, vale davvero la pena inzeppare invece di valorizzare meraviglie, e ce ne sono in questo cartellone, un titolo per tutti il magnifico Weerasthekaul di Cemetery of Splendor (Onde)?

 
Il festival di Locarno che è quello più vicino come formato (molto più internazionale però) non so se ha meno film (ma credo di sì) esclusa la retrospettiva sempre ottima, e lo stesso non si può dire di questa torinese, un altro grande peccato visto che il festival sotto la Mole era rinomato per le sue riscoperte critiche e sistematizzazioni di autori attraverso magnifiche retrospettive e volumi a esse annessi). Ma soprattutto il festival di Locarno ha un progetto forte, che va anche al di là della qualità dei singoli film, e che li valorizza col suo pubblico. Scommessa di cui sopra vinta su tutti i fronti.

 

25VISDXfacciaDUSTUR - Samad 4

Eccoci dunque al nostro titolo, Dustur di Marco Santarelli, nome «abituale» nelle selezioni torinesi, nel concorso Documentari italiani – chissà perché non in quello principale. Cosa racconta questo nuovo film del cineasta, attento sempre a stare sulle cose della realtà senza sfruttarle «economicamente»? La cui sfida è restituirne i molti sensi, attraverso detour e postazioni (di sguardo) oblique. E tanto più qui dove si parla di confronto tra diverse culture e esperienze della legge, del rapporto tra questa, la religione, la politica, l’idea e il ruolo dello stato.
L’occasione è un corso sulla Costituzione italiana organizzato per i detenuti del carcere di Dozza, a Bologna, da Ignazio, un monaco che ha vissuto a lungo in Medio oriente, a cui si affianca Yassine, giovane musulmano rappresentante delle comunità islamiche della città.

 
«Colpa» nel linguaggio giuridico ha un significato diverso che «dolo», ma tra il diritto e la religione il senso di colpa cambia spiega Dino, amico di Ignazio, laureato in legge, al giovane Samad, marocchino, ventisei anni, arrestato per traffico di droga, quattro anni scontati a Dozza, in attesa del foglio di fine pena che non arriva mai. Ora lavora, studia legge, si impunta e affronta la vita con le sue sfide. Ai ragazzi spiega che la sua idea di libertà sono quegli 800 euro di ore di fatica, un buco dove vivere ma di cui ha la chiave in mano.

 
I detenuti, sono quasi tutti musulmani, a ogni appuntamento c’è un nuovo ospite: può dio convivere con il diritto, è la questione che lancia qualcuno. Le posizioni sono molto diverse, Yassine spiega il reale significato di sharia e la necessità di una preghiera che non sai strumentalizzata dalla politica dell’odio. L’ultimo ospite è Samad, i punti chiave della sua proposta di costituzione sono studio, lavoro, reddito massimo e minimo, libertà.

 
Lo spazio della parola è quello che Santini privilegia per indagare quelle convinzioni, confuse e talvolta anche conflittuali, che orientano il legame tra religione e vita sociale. Ed è la parola che permette un confronto in profondità, lontano dai clamori della cronaca, dalle certezze, dalle ideologie precotte interrogando concetti millenari e attuali. L’articolo 21 nato dal fascismo dopo la resistenza, e le primavere arabe che nascono da un sentimento diffuso di cambiamento. «In Tunisia vogliamo l’Islam della tolleranza» dice il mediatore culturale Yassine. La sua parola è quella più composta e più difficile.