Nella solitudine di un recluso ciò che lo sguardo incontra oltre le sbarre può essere di vitale importanza. Se poi il panorama che si apre oltre la finestra a scacchi incornicia, come nel caso dell’Opg di Montelupo Fiorentino, un ridente scorcio di collina toscana e una splendida villa medicea affacciata sulla riva sinistra dell’Arno, unica tra le residenze raffigurate nelle lunette di Giusto Utens a non essere inclusa nel patrimonio Unesco proprio perché non aperta al pubblico, la fantasia allora può fare miracoli. Non solo la fantasia degli attuali 117 internati nei tre reparti rimasti ancora aperti che, almeno sulla carta, dovrebbero lasciare l’Ospedale psichiatrico giudiziario toscano a cominciare dal 1° aprile prossimo.

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Perché sulla villa dell’Ambrogiana sono in molti ad aver messo gli occhi, e il progetto maggiormente accreditato al momento sembra essere quello di trasformare la residenza medicea, quando sarà liberata dall’Opg, in un resort a cinque stelle, visto che «di questi tempi – hanno sostenuto in molti durante il mega convegno organizzato a metà dicembre dal sindaco di Montelupo, Paolo Masetti, con ospiti d’eccezione come il presidente della Toscana Enrico Rossi, il sottosegretario Luca Lotti, il presidente della Cassa depositi e prestiti Franco Bassanini, il direttore dell’Agenzia del demanio Roberto Reggi, il provveditore regionale dell’amministratore penitenziaria Carmelo Cantone e l’assessore regionale alla Salute Luigi Marroni – non si può che ricorrere a investimenti privati», per recuperare un patrimonio statale di tale valore.

Un’idea che inorridisce quanti vorrebbero che la villa medicea rimanesse invece a disposizione della collettività, magari per farne un museo sui manicomi giudiziari, ultima istituzione totale in via di abbattimento. Oppure, come sostiene la direttrice dell’Opg di Montelupo, Antonella Tuoni – che, come tutti i suoi colleghi, ha ricevuto dal Dap una circolare che le impone di «non entrare nel merito di aspetti di carattere generale relativi alla chiusura degli Opg» – per ospitare in una parte della struttura «un carcere a bassa sicurezza, in osmosi col territorio, aperto alla cittadinanza, con i detenuti che lavorano e vivono in un posto bello, ad alto valore simbolico, in modo da ribaltare il concetto vetusto di detenzione che la vuole collegata al dolore».

Rems o commissariamento
In qualunque caso, per “liberare” la villa Amborgiana, c’è bisogno che la Toscana riesca a rispettare le scadenze definite dalla legge 81/2014 che impone alle giunte regionali, pena il commissariamento, di trasmettere entro il 15 marzo ai ministeri di Salute e Giustizia l’elenco delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che sostituiranno gli Opg. Sono strutture a totale gestione sanitaria che non possono superare i 20 posti letto e che dovranno essere in numero adeguato al bacino di utenza regionale.

«Siamo fiduciosi di riuscire a non essere commissariati», fanno sapere dall’assessorato alla Salute. Dopo vari rinvii e rimodulazioni dei piani di attuazione delle Rems, «a causa dell’opposizione dei sindaci dei comuni dove avevamo pensato di collocare le residenze», l’ultima delibera è stata firmata dalla giunta toscana il 9 marzo scorso, a una settimana dalla scadenza, e prevede la realizzazione di circa 70 posti letto, con diversa intensità di cura e di sicurezza, per un costo complessivo di 11,6 milioni di euro. A conti fatti, però, spiegano i tecnici dell’assessorato regionale, la Toscana si deve far carico «solo» dei suoi 50 internati presenti a Montelupo Fiorentino che non sono dimissibili di qui alla fine di marzo, più 7 provenienti dall’Umbria, secondo un accordo interregionale.

Ma per il superamento degli Opg la regione di Rossi ha deciso di avvalersi di una sola Rems (a Careggi, una struttura provvisoria in attesa di costruirne una nell’empolese), e puntare invece maggiormente su strutture non contenitive: due case famiglia a Siena e ad Arezzo (8 posti, ma in alto mare nella realizzazione), e altre quattro residenze sanitarie «intermedie», ossia senza sorveglianza perimetrale, destinate agli internati che stanno ultimando il percorso riabilitativo prima delle dimissioni definitive (42 posti distribuiti ad Aulla, Firenze e Volterra).

Di sinistra ma mica «matti»
Insomma di definitivo non c’è molto perché «tutto è stato deciso a ridosso della scadenza», come fa notare Cesare Bondioli, responsabile nazionale di Psichiatria Democratica: «La realtà è ben lontana dai toni trionfalistici che annunciavano il primato toscano nel superamento degli Opg». Il motivo? «L’insipienza – secondo Bandioli – della Regione a governare e a cogliere una scadenza epocale, pari alla chiusura dei manicomi: non c’è stato un sufficiente e sistematico coinvolgimento dei Dipartimenti di salute mentale (Dsm) e neppure un scambio sufficiente tra Regione e magistratura, come invece è avvenuto in Emilia Romagna (unica, insieme a Campania, Calabria e Friuli a poter rispettare le scadenze senza ricorrere al privato, ndr)».

Ma c’è anche un territorio che, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare dalla “rossa” Toscana, «è stato respingente»: a San Miniato, per esempio, ma anche in molti altri comuni, i sindaci – di sinistra – sono scesi sulle barricate per scongiurare il trasferimento dei «matti» sui loro territori. «La collettività – ragiona Antonella Tuoni – non è sufficientemente matura, non solo per affrontare il problema del disagio mentale abbinato alla commissione di reati ma anche sulla limitazione della libertà personale». Ne è la prova il grosso polverone mediatico alzato dalla notizia divulgata qualche giorno fa di un internato di Montelupo «fuggito» durante una licenza, «cosa che avviene in continuazione, senza alcun problema, visto che stanno testando l’ultima fase di reinserimento», spiega Tuoni. L’uomo, per la cronaca, è già tornato in cella, ma sorride dietro le sbarre chiuse per punizione (le altre sono aperte, quasi tutte, dalle 8 alle 18).

E pensare che il primo passo per il superamento degli Opg, stabilito anche dalla legge Marino, è la presa in carico di ciascun internato da parte del Dsm di appartenenza che dovrebbe approntare piani terapeutici e percorsi di reinserimento personalizzati nel territorio di residenza. Secondo una ricerca promossa da Franco Corleone, garante regionale dei detenuti della Toscana, e dall’associazione di volontariato penitenziario Onlus di Firenze che ha descritto il «quadro della popolazione internata nell’Opg di Montelupo Fiorentino», l’eccessivo ricorso alla proroga delle misure di sicurezza – che ha portato in passato al paradosso di vedere costretti al cosiddetto «ergastolo bianco» persone con piccole condanne alle spalle – è dovuto soprattutto alla «assenza di progetti di dimissione» e al «fallimento delle licenze finali di esperimento». «Il problema – dice Corleone – è che è sempre stata posta la domanda sbagliata: “Dove li mettiamo?” invece di “quali progetti abbiamo per loro?”».

No, non è la 180 ma…
Lo raccontano bene gli internati di Montelupo: «Negli Opg, nelle comunità o anche quando sei libero e seguito dai Dsm, il programma terapeutico non lo fanno mai insieme a noi. Difficile dunque che funzioni», racconta Bruno che viene da San Remo e nell’Opg fa lo scopino per 154 euro al mese ma poi ne deve restituire 50 per il mantenimento, come tutti i carcerati. Silvio annuisce, lui è in regime di custodia attenuata e può lavorare anche all’esterno, come Silvano che proviene dal carcere di Sollicciano. In media, solo il 21% dei reclusi di Montelupo ha un’occupazione interna retribuita.

Alessandro, che viene dalla Liguria ed è vicino alla libertà, ha «iniziato un percorso di psicoterapia» perché non si accontentava degli incontri sporadici con lo psicologo dell’Opg: «Ce ne sono troppo pochi – dice – è normale che diano più attenzione a chi ne ha più bisogno». Per Danilo invece la ripresa è più difficile: è di Cagliari e l’ultima volta che ha visto la sua famiglia, a Natale, «mi sono messo a piangere». Ed è pure fortunato, perché non fa parte di quel 30% di internati che non riceve mai visite dai familiari. Una percentuale simile è quella degli internati che ha alle spalle anche una storia di tossicodipendenza, come Mirko, ventitrenne di Olbia che da sei anni entra ed esce dagli Opg ma rimpiange la comunità «dove lavoravo e c’era un progetto di reinserimento sociale».

Ma anche dentro l’Opg il personale sanitario e socio-sanitario «non è assolutamente parametrato alle esigenze», affermano la direttrice e il comandante Massimo Mencaroni, che dirige il personale penitenziario (77 agenti e una decina di civili). «Come si fa con sette psichiatri, tre psicologi affiancati da uno del Sert per 11 ore settimanali, tre operatori della riabilitazione e due operatori socioassistenziali a fare una politica orientata al reinserimento? Domenica scorsa – raccontano – nel pomeriggio non c’era nessun operatore addetto alla cura degli internati».
Tuoni ricorda però che quando arrivò nel 2011 la struttura «era in condizione pietose». L’allora senatore Ignazio Marino realizzò il suo video-denuncia dentro la sezione «Ambrogiana», chiusa successivamente quando già erano stati appaltati i lavori di ristrutturazione.

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In quegli anni, un incendio si sviluppò su un’intera ala, oggi in ristrutturazione, partito da alcune celle “imbottite” di materiale che risultò niente affatto ignifugo. «Celle utilizzate per contenere persone particolarmente agitate, ma inutili perché avevano letti e porte di ferro che certo non scongiuravano la possibilità di atti di autolesionismo», racconta Franco Scarpa, direttore della struttura «fino al 2008», attualmente responsabile sanitario. C’erano anche tre letti di contenzione, ma «l’Opg era inadeguato alla riabilitazione degli internati allora come lo è adesso – afferma Scarpa – soprattutto per la scarsità di risorse. Perché la logica manicomiale non sta tanto nelle mura quanto nella mancanza di prospettive». «Nonostante ci abbiano fatto passare per cattivi – aggiunge – sono molto contento che con Marino sia arrivata per la prima volta una commissione di medici e non di poliziotti, e che si sia poi deciso di chiudere gli Opg». Oggi dice, «c’è un grande fermento e anche una grande pressione sulle nostre spalle», quasi come quando a liberare i “matti” arrivò la legge Basaglia. «Meno male però che c’è questo faro acceso – conclude Scarpa – ho solo paura di quando i riflettori si spegneranno».