Nell’Europa della prima metà del Seicento la riforma protestante e la controriforma cattolica si erano ormai radicate e istituzionalizzate, la Francia si avviava a essere il laboratorio dell’assolutismo di Luigi XIV, l’Inghilterra era divisa tra i tentativi autoritari degli Stuart e le rivendicazioni di un parlamentarismo nascente, in cui la componente religiosa puritana giocava un ruolo cruciale, la grande monarchia spagnola imboccava una decadenza irreversibile, e le piccole Province Unite calviniste, da poco indipendenti, stavano per diventare un colosso dei commerci marittimi.
La Guerra dei Trent’anni, ultima grande guerra di religione europea, imperversava dal 1618 e si sarebbe conclusa nel 1648. Le carestie e le pestilenze investivano ciclicamente le popolazioni. In questa lunga fase di crisi, trasformazioni, riassestamenti e novità, nacque una piccola repubblica delle lettere che discuteva di scienza. Raccogliendo i frutti delle ricerche cinquecentesche – due per tutte: il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico e il De humani corporis fabrica di Vesalio, entrambi pubblicati nel 1543, e all’origine rispettivamente dell’astronomia e dell’anatomia moderne – da diverse regioni europee dialogavano e fra loro discutevano Keplero, Galilei, Descartes, Harvey, Torricelli, Fermat, e altri forse meno celebri.
Il carteggio trentennale tra René Descartes, Isaac Beeckman, Marin Mersenne, Lettere 1619-1648 (Bompiani, a cura di Giulia Belgioioso e Jean-Robert Armogathe, con testi latini e francesi a fronte, pp. 1674, euro 55,00) costituisce un documento prezioso per osservare tre intellettuali molto diversi tra loro – per estrazione sociale, fede religiosa, interessi teoretici, ruoli istituzionali – scambiarsi le loro idee, mentre in Europa si affermava quel grande sovvertimento del modo di pensare e di conoscere che avrebbe poi costituito la scienza moderna.
Protagonista indiscusso del carteggio è Descartes: sua è la maggioranza schiacciante delle lettere comprese in questa raccolta, centoquarantacinque (centotrentasette a Mersenne, otto a Beeckman), contro le sei di Mersenne (cinque a Descartes, una a Beeckman) e le sette di Beeckman (sei a Mersenne, una a Descartes). Questo scarto si spiega per un verso con l’abitudine di Descartes a tenere tutte le minute delle proprie missive, per altro verso con le travagliate vicende di conservazione e di trasmissione di testi naturalmente esposti al rischio di perdita o di corruzione, ciò che evidenzia l’importanza della storia materiale dei testi, in questo caso di difficoltosa ricostruzione, date le condizioni in cui i tre autori si trovavano a scambiarsi questioni e soluzioni di problemi, e punteggiata da smarrimenti, ritardi, indirizzi sbagliati e corrieri distratti di cui si trova traccia nelle stesse lettere dei tre («le vostre ultime sono rimaste ferme per qualche tempo ad Amsterdam – scrive Descartes a Marsenne – in attesa di colui al quale le avevate indirizzate»; «mi stupisce molto che le tre lettere che mi dite d’avermi fatto l’onore di scrivermi siano andate perdute»; «la perdita delle lettere che vi avevo scritto verso la fine del mese di novembre»).
Il promotore di tutti gli scambi tra i tre interlocutori è Marin Mersenne, il meno brillante dei tre dal punto di vista scientifico ma di certo il più assiduo nell’interpellare, sollecitare, mettere in contatto, porre domande, inviare libri e manoscritti. Monaco dell’ordine di san Francesco di Paola, eclettico per inclinazione e per vocazione, sognava un’accademia europea delle lettere e delle scienze che viaggiasse per corrispondenza. Da Parigi, dove risiedeva, manteneva i contatti con intellettuali sparsi ai quattro angoli del continente, spesso facendo da tramite in prima persona, come si apprende per esempio dalla corrispondenza tra Descartes e Hobbes all’inizio degli anni quaranta, anch’essa riportata nel volume.
Quanto a Isaac Beeckman, era un uomo di scienza delle Province Unite riformate: calvinista, studioso di teologia, di medicina, di fisica, di musicologia, ricopriva ruoli di rilievo nelle università olandesi e da molti suoi contemporanei venne considerato un filosofo di tutto rispetto, nonostante non abbia lasciato dietro di sé tracce rilevanti. René Descartes si presentava invece come un gentilhomme français, discendente della piccola nobiltà di toga che ad un certo punto scelse di lasciare la Francia e ritirarsi, lui cattolico, nell’Olanda calvinista che gli avrebbe garantito quiete, libertà e distanza da tutto ciò che lo distoglieva dalle attività a cui voleva consacrare la propria esistenza: lo studio, la ricerca, la scoperta, la filosofia, la scienza.
Nei trent’anni coperti dall’epistolario i temi che ritornano sono spesso trattati in maniera frammentaria o discontinua: vi si trovano questioni di algebra, di geometria analitica, di ottica, di meccanica, di astronomia, di fisiologia, di musicologia; l’Index rerum che i curatori redigono costituisce una guida importante per chi voglia seguire gli sviluppi dei diversi problemi che i tre autori trattano. Ma quel che è fondamentale, intanto, è capire come Descartes, Beeckman e Mersenne in buona parte, anche se non del tutto, affrontino problemi scientifici a partire dall’ordinario: si arrovellano e discutono di campane, candele, liquidi nei bicchieri, corde, fionde, specchi, rane, balestre, flauti, canne d’organo, lenti, pietre, leve, tubi.
Le esperienze che si scambiano sono semplici, comuni alla vita quotidiana, ma a partire da queste affrontano problemi come la determinazione della forza di gravità, della natura della luce, della massa, della velocità e dell’accelerazione. Si occupano di magnetismo, della propagazione dei suoni e della loro percezione, dell’armonia musicale e della sua traducibilità in termini matematici, della circolazione sanguigna. La scienza moderna nasceva dunque fuori dai laboratori, da esperimenti che potremmo riprodurre nelle nostre cucine, ma a compierli erano osservatori portentosi, uomini curiosi che si sentivano investiti del compito di comprendere perché le cose stessero come stavano, e a una straordinaria capacità di osservazione e di problematizzazione dell’ordinario coniugavano la descrizione, nella forma più semplice e più diretta possibile, degli elementi fondamentali dei fenomeni esaminati. Il linguaggio matematico diventava la lingua universale del sapere finalizzato a cogliere il funzionamento della natura.
Per Descartes la verità è stabilita da Dio, dipende interamente da lui e le verità eterne sono innate nell’essere umano. «L’esistenza di Dio, infatti, è la prima e la più eterna di tutte le verità che possono essere e la sola da cui procedano tutte le altre», scrive a Mersenne il 6 maggio del 1630. Ma il Dio che Descartes difende nel proprio sistema filosofico non è il Dio della teologia morale. Quando Mersenne lo incalza sulla dannazione eterna risponde che la questione «è teologica; perciò, vi prego assolutamente di consentirmi di non dirne nulla».
Dio è garanzia epistemologica, fondamento della conoscibilità del reale. E quando, pubblicate le Meditazioni metafisiche nel 1640, sostiene che lo scopo della sua metafisica è «far intendere quali sono le cose che è possibile concepire distintamente», diventa evidente che la riflessione sistematica cartesiana non è semplicemente il razionalismo radicale di un cattolico osservante, ma una teoria della conoscenza che si fonda sulla capacità dell’uomo di pensare e sulla pensabilità del reale.
Sia quando si inerpica sulle vette della dimostrazione dell’esistenza di Dio, sia quando seziona l’occhio di un bue, o osserva i differenti modi di rimbalzare di palle di lana, di metallo, di legno, l’epistemologia di Descartes emerge in queste lettere come un progetto titanico di comprensione della realtà.