Un banco di prova complesso. È il tentativo della Fondazione Centro Matteucci per l’arte moderna di Viareggio di ricomporre, attraverso lo scandaglio di collezioni, una storia della pittura toscana dalla fine dell’Ottocento alla metà degli anni Quaranta del secolo scorso. All’apparenza, un’impresa ai limiti dell’impossibile, in ragione dell’impegno necessario per ricostruire uno spaccato il più possibile rappresentativo di quanto artisti, movimenti, collezionisti e mercanti avevano prodotto e fatto circolare in quel lasso di tempo così ritorto in fratture e accadimenti storici e artistici che avevano investito come un tornado l’Europa e l’Italia.
In più, tutto ciò, in un luogo limitato come Viareggio e la Versilia. Ma, con le ultime mostre, Da Fattori a Casorati. Capolavori dalla Collezione Ojetti, questa sì autentico snodo fondamentale della programmazione espositiva del Centro, seguite da Borrani al di là della macchia e Prima e dopo la Secessione romana, molte risposte sono arrivate, quasi a dirimere dubbi e dissodare certezze che parevano acquisite e non più «all’ordine del giorno». Questo lungo lavoro ha evidenziato come nuclei originari e fondanti di un’idea espositiva legata soprattutto al «genius loci» – e, come accennato, più che il lavoro e l’opera di un artista si privilegia la dislocazione geografica e le centrifughe sociali dell’otto-novecento – risultino le ricche raccolte della fine del XIX secolo e dei primi trent’anni del XX, in cui trovavano posto, lette a posteriori, sezioni monografiche dedicate a macchiaioli, post-macchiaioli, post-impressionisti, divisionisti, post-divisionisti in odore di futurismo e metafisici.
Non va, inoltre, dimenticato che le raccolte di pittura venivano integrate da importanti sculture e arricchite da una notevole produzione grafica. Insomma, si è trattato di procedere a ritroso, alla ricerca di ciò che non era andato oggetto di dispersione, anche casuale, di ingenti patrimoni composti da arredi, opere d’arte e di archivi che avrebbero reso difficile risalire a qualunque compendio artistico e documentario per come erano stati smembrati.
Su questa disposizione d’intenti le sale restaurate della palazzina liberty di via d’Annunzio ospitano, fino al 19 ottobre prima di trasferirsi a Firenze in Villa Bardini fino al febbraio del 2015, l’antologia dedicata al pittore anglo-tunisino e viareggino d’elezione e matrimonio, Moses Levy: Luce Marina. Una vicenda dell’arte italiana. 1915 – 1935 (con progetto di Giuliano Matteucci, catalogo della stessa Fondazione con scritti di Susanna Ragionieri, Marcello Ciccuto, Isabella Tobino e Giovanni Mariotti).
Appartenente alla generazione dell’Ottanta, cosmopolita per vocazione, viaggiatore, attratto dal deserto come dalle novità tecnologiche (una cinepresa Pathè da 9mm era «l’assidua compagna delle sue giornate di lavoro»), Moses Levy fu amico e contraltare del «terragno» Viani e di Pea, Ungaretti, Prezzolini, lettore dell’Apollinaire dei Pittori cubisti, nonché frequentatore del bel mondo che gravitava nell’orbita del litorale versiliano, allora appannaggio di artisti, musicisti, scrittori e intellettuali, come d’Annunzio e Pirandello.
Dopo gli inizi esotici (in mostra l’isolata e degasiana Fidanzata araba del 1908) e la frequentazione a Rigoli di Viani, della cui influenza peraltro si liberò presto, Moses Levy riuscì ad indirizzare l’innata sprezzatura verso soggetti pittorici che gli consentirono di attraversare indenne la lunga estate «calda del ventennio», prima del volontario allontanamento parigino dovuto alla promulgazione delle leggi razziali.
Pure la mattanza della Prima Guerra mondiale sembra lontana nell’osservare Le donne con il parasole, Nurse e bambini in riva al mare, L’ombrellone a strisce e La spiaggia d’estate, tutti realizzati tra il 1915 e il ’17: una spensieratezza che però s’adombra nel dittico, composto tra il 1917 e il ’18, Donna in blu e Luce marina in cui s’incontrano in un felice e fenomenale connubio di trame cezanniane e tinte fauve con un’occhiata all’avanzante espressionismo secessionista austriaco. Queste sono avvisaglie della frattura antifascista replicata nell’ultima sala, che raccoglie un drappello di opere datate prima metà anni trenta – ed in cui la dissoluzione di un intero mondo (il Bagno Cirillo è ormai un’illusione lasciata al ricordo dei bei tempi) si ritrova nel suo autoritratto e in quelli indomiti e scomodi del vecchio amico Pea e nel nuovo Leonida Repaci, drammaturgo e signore di premi ed eventi letterari nella seconda parte del Novecento.