«È più facile nascondere cinque elefanti sotto un’ascella che un solo cinedo». Questo proverbio giunto fino a noi dal secondo secolo d.C. grazie alla penna di Luciano di Samosata, attesta che la favolosità non era acqua – per usare un’espressione camp – nemmeno nell’antichità classica. Il cinedo di cui si magnifica la capacità di attirare l’attenzione è infatti un personaggio che oggi potremmo definire una checca. E che evidentemente già allora si faceva notare parecchio per la parlantina, il senso estetico come minimo sopra le righe e la predilezione per il teatro di strada.

L’esempio basta e avanza per prendere in seria considerazione quanto sostiene Giovanni Dall’Orto nel suo volumone sulla storia dell’omosessualità maschile dalla Bibbia ai giorni nostri edito dal Saggiatore (Tutta un’altra storia, pp.730, 27 euro): l’identità omosessuale non è poi un’invenzione così moderna come certi accademici dicono perché già duemila e rotti anni fa esistevano dei tipi umani che venivano «dedotti» dalle loro peculiari inclinazioni sessuali. E non solo e non tanto i virili amanti dei ragazzi di cui ci sono state tramandate innumerevoli notizie attraverso l’arte e la letteratura greca e romana. Questi potevano benissimo rientrare nella norma a patto di salvaguardare la loro mascolinità secondo i criteri dell’epoca. I cinedi invece erano quelli che stavano dall’altra parte del fossato dell’onore in quanto votati a una passione esclusiva per i maschi che li rendeva simili alle femmine, fisicamente e/o psicologicamente. A tale categoria venivano ascritti indifferentemente finocchi, travestiti e trans gender ante litteram, ritenendo che i loro disdicevoli comportamenti fossero frutto di una condizione interiore, cioè un orientamento sessuale. «Dunque – dice Dall’Orto – se cercate l’omosessuale antico, eccolo qui».

Il potere sulla sessualità

Certo la parola «omosessuale» pare un po’ fuori contesto, visto che entrò nel linguaggio medico nel XIX secolo e in quello comune nel XX. Ma si tratta di un uso intenzionalmente polemico perché tra i principali obiettivi dell’autore c’è quello di smentire la cosiddetta teoria costruzionista, che discende dalle riflessioni storiche e filosofiche di Michel Foucault e secondo la quale «l’omosessualità sarebbe una costruzione sociale creata dal Potere per reprimere la libera sessualità umana» . Sarebbe stata inventata a questo scopo dalla medicina nell’Ottocento, mentre prima di allora esistevano sì comportamenti omosessuali ma non una «specie» a sé stante.

Per gli studiosi che sostengono questa tesi, accusati anche di monopolizzare il dibattito accademico sulla storia dell’omosessualità, Dall’Orto crea l’appellativo provocatorio di «invenzionisti» e con loro duella a distanza lungo tutto il corso delle sue riflessioni attraverso trenta secoli di storia occidentale. In primis, obietta, la sessualità umana non è determinata solo dalla cultura ma anche da un istinto irriducibile che quando cerchi di cacciarlo dalla porta rientra sempre dalla finestra, come dimostrano tra l’altro molti secoli di persecuzioni dei sodomiti e degli omosessuali. Con questo ineliminabile dato di fatto la cultura ha dovuto fare i conti da ben prima del XIX secolo, ponendosi domande che dall’antica Grecia fino a oggi sono sorprendentemente poco cambiate (vedi il plurimillenario dibattito sulle cause dell’inclinazione omosessuale). Inoltre gli storici «invenzionisti», sempre a giudizio dell’autore, propongono uno schema scandito da «faglie epistemologiche» in cui ogni paradigma culturale sostituisce ed elimina il precedente nei «discorsi del potere». Ritenendo però valida una sola concezione della sessualità alla volta si crea una sorta di incomunicabilità tra le varie epoche e si finisce per rappresentare come dei totali alieni gli abitanti di quelle passate che ragionavano secondo paradigmi diversi.

Sono cose che succedono, conclude Dall’Orto, quando si parte dalle teorie per dare un senso alle fonti storiche e non viceversa. Proponendosi di fare il contrario, «la documentazione mostra che ogni società, sia in passato che oggi, tende a coltivare contemporaneamente più concezioni dell’omosessualità, anche contraddittorie e inconciliabili, e queste concezioni si accavallano, si fondono, si mescolano e si trasformano a vicenda, in una continua dialettica fra “discorsi” e “controdiscorsi” nella quale è del tutto arbitraria ogni pretesa di indicare la concezione dell’omosessualità in un dato momento storico». Ne viene fuori una polifonia incasinata e pure lacunosa, perché quella del silenzio e della censura è stata una delle strategie più valide per limitare i danni prodotti dalla diffusione del peccato indicibile. Ma conforta scoprire attraverso le pagine di Tutta un’altra storia quanto si sia arricchito il puzzle negli ultimi trent’anni grazie all’effervescenza della ricerca nel modo anglosassone e nell’Europa occidentale.

Il testo e le densissime 160 pagine di note scomodamente piazzate in fondo al libro ci sommergono di citazioni e rimandi bibliografici da cui si può constatare che molta memoria di prima mano è già stata disseppellita dagli studi degli ultimi decenni e molta altra ancora sta solo aspettando che qualche giovane appassionato le tolga la polvere di dosso, come Dall’Orto non manca mai di far notare quando se ne presenta l’occasione. Quel tanto che è già stato riscoperto ci restituisce comunque un’immagine un po’ più definita del passato e consente di tentare di tentare un nuovo bilancio provvisorio. Questa è poi la sostanza del libro, che non è né un manuale né un’enciclopedia di storia gay ma il personale bilancio di uno storico che dopo oltre trent’anni di ricerche sul campo e di accesi confronti con amici e nemici cerca di fare il punto attraverso la documentazione disponibile. E rispettando la motivazione originaria del suo lavoro decide di raccontare «una storia degli omosessuali e non degli omofobi», privilegiando «i punti di vista dei perseguitati anziché dei persecutori».

Il paradiso che non c’è

Giovanni Dall’Orto, infatti, viene dal movimento lgbt ed è stato (è) un punto di riferimento indiscusso per la ricerca storica prodotta dentro o a fianco del movimento italiano, nella convinzione che ricostruire una memoria collettiva attendibile fosse un passo necessario verso l’uguaglianza prima di tutto psicologica. Fare la storia degli omosessuali espellendo gli omofobi dal quadro è utopistico, se non altro perché buona parte delle testimonianze che ci rimangono sono tracce delle persecuzioni subite dagli uni ad opera degli altri. Ma d’altra parte i punti di vista e le esistenze delle vittime parlano anche attraverso la memoria dei carnefici.

E cosa ci raccontano? Abbiamo già accennato al fatto che Grecia e Roma non erano il «paradiso» che varie generazioni di proto militanti gay avevano descritto per legittimare se stesse e che studi più recenti hanno molto ridimensionato. Il dato innegabile che in certi casi pratiche e affetti omosessuali fossero quantomeno tollerati, quando non addirittura raccomandati, non toglie che fossero oggetto della pubblica riprovazione coloro che confondevano ruoli e generi annullando le distinzioni «naturali» tra chi domina e chi è dominato. E nemmeno che il vero laboratorio dell’omofobia di stato ufficializzata dal cristianesimo sia stata l’antichità pagana ancor più di quella ebraica, in un filo rosso che unisce Platone agli stoici per arrivare a San Paolo e da qui proseguire per una schiera di santi e teologi successivi. Di suo il cristianesimo ci mise l’anatema divino, parificando nella colpa gli omosessuali attivi a quelli passivi e fornendo un’interpretazione anacronistica dell’episodio di Sodoma e Gomorra che avrebbe col tempo stimolato il ricorso ai roghi. Di cui però non c’è traccia riscontrabile, almeno nell’Europa occidentale, per tutto l’Alto Medioevo.

La regressione della civiltà urbana fece sparire per secoli persino la possibilità di sottoculture «gay» da reprimere, mentre «fra il VI e l’VIII secolo la repressione dei comportamenti omosessuali passa dalle mani dello stato a quelle della chiesa, la quale li punisce con penitenze, mandando nel dimenticatoio la pena di morte e ancor più quella del rogo prevista dagli ultimi imperatori romani». Lo scenario cambia dopo l’anno Mille, con il nuovo sviluppo urbano e gli sconvolgimenti socio-religiosi dei secoli XI-XIII. È qui che si perfeziona la figura del sodomita, periodicamente sacrificata sui roghi dalla metà del Duecento alla Rivoluzione Francese in gran parte dell’Europa ad ogni ondata di rigore morale e allarme sociale. In questo frattempo però cominciamo ad avere la certezza che gli stessi sodomiti imparano a percepirsi come tali e cercano di organizzarsi. Dalle cronache dei processi al profluvio di misure di polizia dirette ad arginare il fenomeno veniamo a conoscenza delle mappe gay e delle reti sociali di città grandi o piccole, ma arrivano fino a noi finalmente anche le voci dei sodomiti, che sempre più spesso mettono ereticamente in discussione la gravità del loro peccato.

Con il tempo, tra spinte e controspinte, sarà l’intera società occidentale a farlo e ciò porterà all’abolizione della pena di morte ma non alla fine delle persecuzioni. E qui giungiamo a un punto cruciale, quando nell’Ottocento nasce ufficialmente il concetto di omosessualità dopo che dell’argomento iniziano a occuparsi anche medici e psichiatri oltre a predicatori, giudici e poliziotti. L’opinione di Dall’Orto in proposito è che la medicina non inventò affatto l’omosessualità, ma si limitò a patologizzarla. Con conseguenze tuttavia impreviste, perché lo sviluppo del dibattito scientifico offrì uno spazio privilegiato per «bucare la cappa di omertà» della morale dominante e discutere apertamente, offrendo per la prima volta agli stessi omosessuali l’opportunità di intervenire nella discussione e di influenzare con le loro teorie e testimonianze i discorsi medici.

Isteria omofoba

Si diffusero i memoriali e le confessioni in cui i pazienti cercavano scopertamente di tirare i dottori dalla loro parte, persino riuscendoci qualche volta. Dopodiché gli omosessuali cominciano ad organizzarsi davvero e a reclamare il diritto di vivere come tali alla luce del sole. Soprattutto in Germania, dove solo la violenza nazista riuscì a stroncare il più avanzato esperimento di liberazione omosessuale mai visto fino ad allora. Fascismo e nazismo, insieme alla versione staliniana del comunismo e all’America del maccartismo e dintorni (senza dimenticare la Gran Bretagna che suicidò Alan Turing) costituiscono altrettanti pezzi di quello che dall’Orto definisce «il picco più alto d’isteria omofobica dell’intera storia umana». Ma fu poi dalla reazione a queste persecuzioni che negli Stati Uniti nacque il movimento gay contemporaneo, che propagò attraverso il pianeta i propri stili, linguaggi e modelli organizzativi. Il resto è cronaca dell’apparentemente inarrestabile marcia di integrazione delle minoranze lgbt in tutto l’occidente. Con la vistosa eccezione dell’Italia che del resto, ammette l’autore, non è l’America.