Scrive per il New Yorker e un buon numero di altre prestigiose testate dalla fine degli anni Ottanta. Con in tasca una laurea in letteratura conseguita in California e un master ottenuto all’«Università degli scrittori» di Missoula, in Montana, dove insegnava il compianto James Crumley, si è occupato nel corso dell’ultimo ventennio di guerra, terrorismo, estreme destre e razzismo in Africa, America Latina e negli stessi Stati Uniti, dove ha analizzato le politiche nei confronti degli immigrati ispanici e la crescente militarizzazione del confine meridionale del paese, come lo sviluppo del nuovo suprematismo bianco tra i giovani, ad esempio incontrando i membri della gang dei Nazis Low Riders in California. Ma il più ambito premio attribuito dalla critica statunitense, il Pulitzer, in questo caso nella categoria memoir, William Finnegan lo ha ottenuto quest’anno con Giorni selvaggi (66thand2nd, pp. 450, euro 23, traduzione di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini) – che l’autore ha presentato nei giorni scorsi a Roma nell’ambito del Festival Letterature -, il suo straordinario racconto di «una vita sulle onde».

Surfista per amore e giornalista per vocazione, Finnegan descrive minuziosamente in questo libro che mostra in controluce anche tutte le trasformazioni vissute dai giovani America dai tempi dell’era psichedelica in poi, il lungo viaggio che ha compiuto attraverso il surf e che da adoloscente californiano trapiantato a Honolulu lo ha condotto alla ricerca dell’«onda perfetta» via via ai quattro angoli del mondo: dal Sudafrica dell’apartheid alle isole Fiji, dall’Australia a Samoa, da Madeira al New Jersey dove ancora oggi, a 64 anni, cavalca la sua tavola in mezzo al mare a mezz’ora di macchina da Manhattan.

Lei è uno dei reporter di punta del «New Yorker», ci aiuti a capire cosa sta succedendo negli Stati Uniti. Partiamo dal «fenomeno Trump»…
Alla base dell’ampio consenso che sembra raccogliere Donald Trump credo ci siano prima di tutto le paure e i fantasmi razziali che agitano una parte della comunità bianca negli Stati Uniti. Parlo di una porzione della nostra società meno marginale di ciò che si sarebbe portati a credere così a prima vista. Quando il candidato repubblicando annuncia che il suo programma è quello di far tornare nuovamente grande l’America (Make America Great Again è lo slogan della sua campagna, ndr), in molti leggono queste parole come la promessa che il paese tornerà «bianco», vale a dire che saranno restaurate le tradizionali gerarchie razziali che, per altro, non sono state mai davvero stravolte fino in fondo, ma che oggi a detta di costoro sarebbero state modificate dal crescere nel numero e nel ruolo sociale delle minoranze. La base elettorale di Trump è composta quasi solo da bianchi, spesso poco informati e che si aggiornano tramite le tv commerciali, quelle che trasmettono i reality-show. I fatti di questi giorni, l’uccisione dei poliziotti a Dallas e la contrapposizione violenta che sembra montare nel paese, non fanno che nutrire le loro ansie.

Pensa che questo clima possa favorire addirittura la vittoria di Trump?
Lo temo fortemente. Del resto è dopo le stragi di San Bernardino e di Orlando, o con l’emergere a livello internazionale della questione dei profughi siriani, che lui ha fatto le sue affermazioni più dure contro i musulmani da non far entrare più nel paese o da tenere lontani dalle nostre città. Se dovesse mai arrivare alla Casa Bianca un uomo così, sarebbe davvero una catastrofe senza precedenti e potrebbe avere conseguenze terribili non solo per gli Stati Uniti. Penso che tutti gli americani che non vogliono smettere di usare la propria testa debbano condividere questo mio timore.

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In questi giorni sono la violenza della polizia e il razzismo a dominare la scena. Come giornalista del \New Yorker| nel 2009 lei scrisse un lungo profilo di Joe Arpaipo, lo sceriffo della contea di Maricopa, in Arizona, diventato un’icona per la destra per i suoi metodi brutali nei confronti degli immigrati irregolari. Come per gli abusi compiuti oggi da molti agenti contro gli afroamericani, oltre all’impunità legale ciò che colpisce di più è che simili conportamenti possano produrre consenso presso una parte della popolazione, soprattutto bianca. Come andò in quel caso?
In effetti, in molte parti del paese la carica di sceriffo o di responsabile locale dell’ordine pubblico è elettiva. Perciò non i singoli agenti, ma magari il loro capo o supervisore sono stati nominati grazie ad un voto dei cittadini. Così, nel caso della contea di Maricopa, per oltre 15 anni la maggioranza di chi si recava a votare ha sostenuto Arpaio e questo malgrado lo sceriffo contasse degli oppositori perfino tra gli stessi uomini della polizia locale. Evidentemente l’idea di umiliare i prigionieri che erano tenuti in delle specie di gabbie all’aperto non riusciva sgradita a questi elettori: alcuni hanno cominciato a cambiare idea quando il dipartimento dello sceriffo è stato condannato a pagare dei risarcimenti per questi trattamenti inumani e il tutto si è fatto sentire sulle tasse locali. Inoltre, si deve tener conto di come nella zona di Phoenix, dove operava Arpaio, la stessa comunità dei latinos, insediata da queste parti da molto tempo, fosse divisa quanto al suo comportamento; chi era schierato con i repubblicani stava dalla sua parte. E questo, malgrado uno dei vice-sceriffi, anch’egli di origine ispanica, un giorno mi disse: «Molta gente viene a ringraziarci per il lavoro che facciamo, ma sono tutti bianchi».

Veniamo all’altra, e forse principale passione della sua vita, il surf. «Giorni selvaggi» si presenta come un libro a metà strada tra il romanzo di formazione e l’autobiografia: quasi un diario di vita, e in parte dell’America stessa, osservata da una tavola che volteggia sulle onde. Parlare soltanto di sport sembra riduttivo, in ballo ci sono una ricerca di natura metafisica e un bisogno inarrestabile di libertà. Come stanno davvero le cose?
Certo, il surf è prima di tutto una pratica, uno sport in altre parole. Ma è anche vero che per me, come per altri della mia generazione, quella cresciuta nel secondo dopoguerra, ha rappresentato una «via», uno modo diverso di vedere e vivere le cose. Se per gli hawaiani ha sempre rappresentato una parte delle tradizioni e della religiosità locale, nella mia adolescenza ha preso il posto che fino a 13 anni aveva avuto il catechismo e la scuola cattolica: dopo la cresima ho smesso di frequentare la chiesa e ho cominciato a surfare tutti i giorni. Da quel momento la ricerca delle onde più grandi ha dominato gran parte della mia esistenza, mi ha portato negli angoli più sperduti del mondo, a contatto con persone bizzarre, con situazioni a volte molto pericolose. L’idea di scrivere questo libro mi ha accompagnato per oltre vent’anni e quando l’ho finito e ho visto scorrere davanti a me le immagini della mia vita come in un film, mi sono reso conto che avevo sviluppato una sorta di dipendenza dal surf. Ma anche che grazie a tutto ciò non avevo mai rinunciato al mio bisogno e alla mia voglia di libertà. Per certi versi inseguire le onde ha salvato la mia anima, e forse anche la mia vita.

L’immagine del surf che va per la maggiore da sempre è segnata dai teen-movie degli anni Sessanta con Frankie Avalon e Annette Funicello, dalla musica dei Beach Boys e dai personaggi del film di John Milius, «Un mercoledì da leoni»: un mondo che incarna i valori della classe media bianca e la cultura maistream nel senso più deteriore del termine. Eppure nel suo libro il surf incontra le controculture giovanili, le proteste contro la guerra del Vietnam, gli hippie e le droghe. Da che parte sta la verità?
I veri surfisti hanno flirtato con le controculture fin dagli anni Sessanta, addirittura in quel periodo alle Hawaii sono nate delle comunità di renitenti alla leva, di pacifisti e di figli dei fiori che fuggivano dal continente per rifiutare la guerra e vivere liberamente tra spiagge e foreste. Ma, soprattutto, quella del surf è stata fin dall’inizio una sottocultura, con i suoi codici non scritti ma non per questo meno rigidi, il suo stile e il suo linguaggio.
Il mainstream dell’industria culturale, dalla musica ai beach-movie fino alla formazione di una vera e propria «mitologia», ha cercato in ogni modo di governare questo fenomeno, di trasformarne i simboli in una merce da vendere al mercato dei teenagers, ma ci è riuscito solo in parte. Il caso dei Beach Boys è forse quello più paradossale da questo punto di vista, nel senso che non credo di aver mai conosciuto dei surfisti che ascoltavano o amavano la loro musica, mentre seguivano band pressoché sconosciute dal suono molto più ruvido e dallo stile selvaggio. E credo anche che gli stessi componenti dei Beach Boys non abbiano in realtà mai messo piede su una tavola per affrontare un’onda.

A un certo punto, in «Giorni selvaggi», lei spiega che tra chi pratica il surf si stabilisce quasi una sorta di «contratto sociale», un modo tacito di regolare l’aspirazione alla libertà più assoluta con uno spirito solidale e comunitario…
Tutto parte dal fatto che quando «cerchi l’onda» sei tu, da solo, che ti misuri con il mare. Non potrebbe essere che così. Però, allo stesso tempo il più delle volte lo fai in un punto dell’oceano dove tante altre persone stanno cercando di fare la stessa cosa: così guardi lo stile degli altri, il modo in cui si muovono sulla tavola, come spostano il peso da una parte all’altra, se resistono o meno senza cadere di fronte alle onde più alte e potenti. Cerchi di imitare l’eleganza dei movimenti dei più bravi e di evitare gli errori di chi è alle prime armi. Per certi versi sei insieme agli altri, per altri non puoi che trovarti irrimediabilmente da solo. Ed è in questa dimensione ambigua di comunità che si stabiliscono quelle che potremmo definire come strategie di potere, ma anche le forme di solidarietà che caratterizzano questa pratica. In qualche modo quella che si stabilisce tra le onde è una nuova aspirazione alla cittadinanza, libera e condivisa.