L’underground assorbe la sua linfa vitale dai contesti in cui si sviluppa e il rap, in Italia, pur confermandosi nelle vendite, troppo spesso sembra un affare relegato a ragazzini annoiati. Da qualche tempo, invece, la rapper (sì, una donna nel mascolino mondo rap) Loop Loona sfida il conformismo e i luoghi comuni di una società scettica e machista, per ottenere un prodotto che crea un salutare cortocircuito in cui ad emergere, concettualmente, sono musica e racconto. D’altronde miss Loona si è fatta valere sin dagli esordi, come prima donna al format nazionale di freestyle dell’Mtv Spit e consacrando il suo talento nell’estate 2014, con l’album Senza fine (Antibemusic). Ora ne esce un estratto con un videoclip, il singolo Dalle mie parti musicato dal rapper Turi, in cui si rivolge alla sua terra, la Calabria. Il video picchia forte, rifacendosi alle storie vere della ’ndrangheta, come quella del boss Francesco Raccosta, dato in pasto vivo ai maiali. Ci vogliono spalle larghe e cervello.

Nel video si vede la bellezza della Calabria e gli aspetti legati alla cronaca della tua terra d’origine. In Italia ora c’è molto rap e alcuni artisti provano a cantare la criminalità delle proprie strade ma sembrano, come dire, stonati, in te invece si sente la rabbia ma anche la consapevolezza di affrontare il problema senza giudicare. È una linea sottile per la quale si può facilmente essere criticati, hai ricevuto commenti che ti hanno fatto male più di altri? 

Più che le critiche, mi ha infastidito che molti mi hanno usato per dire ciò che pensavano dell’argomento. Io vorrei che si creasse una dialettica reale, fuori dai toni buonisti o politicamente corretti per cui il mondo è diviso in buoni e cattivi, bianco e nero. Sarebbe bene parlarne in modo differente, con la voce di una persona comune. È facile demonizzare un fenomeno del genere a parole, ma nei fatti è diverso, perché spesso le organizzazioni criminali fanno comodo sia al singolo cittadino, che ne ha bisogno per risolvere questioni personali, sia all’imprenditore del Nord a cui servono protezione e liquidità, fino ad arrivare al politico per i voti. La «’ndrangheta serve«, se così non è, allora dovete dimostrarci il contrario.

Ho sentito che YouTube in alcuni Paesi esteri non ti permette di promuovere il video di Dalle mie parti, girato da Mauro Russo, perché ci sono immagini scioccanti, eppure mi sembra di aver visto in circolazione video molto più truculenti. Come te lo spieghi?

Il video viene censurato perché mostra immagini troppo violente, ma è la realtà in cui viviamo a essere violenta. Parliamo di libertà di espressione, se censuriamo temi così importanti dove andiamo a finire? Senza fare polemica con YouTube o con le tv che non trasmettono il video, il problema è il sistema. Ho sviluppato una coscienza perché certe cose le ho viste, se la gente non le vede, o le vede solo in maniera edulcorata, come può pensare di comprendere a fondo di cosa stiamo parlando? Video più forti e molto diseducativi passano su tutti i canali perché hanno le major dietro e perché ci spendono un sacco di soldi. Un progetto indipendente che manda un messaggio serio e socialmente utile viene censurato. Qui andiamo oltre la musica.

La tua sembra una sfida doppia, donna calabrese che si racconta con l’hip hop, ti sei mai sentita boicottata nel tuo lavoro?
È successo, ma per colpa mia. Perché non rispondo a certi canoni e non voglio stare a certe regole. Cerco di non snaturarmi, a me piace quella parte di Italia che continua a fare cultura, che crea piuttosto che distruggere le menti.

Uno dei problemi che poni è dove finisce la ’ndrangheta e dove comincia lo Stato, come a far capire che la complessità del fenomeno mafioso è inestricabile, tanto più per chi lo subisce quotidianamente. Al di fuori dei singoli fatti, non hai l’impressione che l’intero Paese sia ostaggio di una dinamica simile? 

È assolutamente un problema italiano che non coinvolge solo la Calabria. Ci si lamenta perché gli imprenditori non denunciano, si farebbe prima a chiedersi perché non lo fanno. Per non parlare dei funzionari e dei politici che ancora dicono che la mafia non esiste.

Parli l’arabo e hai vissuto in paesi come Tunisia e Siria, nel tuo disco è centrale il ruolo della donna: la percezione generale della loro condizione, sia nel sud Italia che in Medio Oriente, è distorta? 

Sì. Le donne in Medio Oriente, per esempio, spesso sono costrette o invogliate per ragioni sociali a indossare l’hijab o il niqab, le donne nei Paesi occidentali sono costrette o invogliate a rispondere a dei canoni estetici che ci impongono di essere sempre belle. Forse, se non fossi stata una ragazza «carina», mi avrebbero sbattuto molte più porte in faccia rispetto a quelle che ho avuto. Lo stesso vale per una ragazza che decide di non portare il velo in alcuni Paesi.