Siamo alla vigilia del centenario della Rivoluzione russa e dell’ottantesimo anniversario della morte di Gramsci. La «rivoluzione contro il Capitale», la celebre espressione gramsciana che lega uno dei massimi eventi politici del Novecento alla interpretazione antideterministica e antieconomicistica del marxismo, torna alla mente leggendo il recente libro di Marcello Musto, L’ultimo Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale (Donzelli, pp. 148, euro 24).

Torna alla mente perché il Marx che esce dalle pagine di questo libro è lontano da quello della Seconda Internazionale, che condannavano la Rivoluzione russa in nome della sua «immaturità» e dalla sua lontananza dal modello stadiale, deterministico ed economicistico, che ravvisava nell’opera di Marx. Musto, profondo conoscitore della figura e dell’opera del Moro (così era soprannominato Marx), unisce con mano felice l’interesse per gli eventi e i fatti significativi della sua biografia con quello per l’evoluzione dei suoi studi negli ultimi tre anni di vita. Sono anni in cui Marx continua a essere operoso: pur malato e afflitto dalla malattia della moglie Jenny, che muore nel dicembre 1881, egli seguita a lavorare: non solo cerca, invano, di portare avanti e rendere pubblicabile il secondo libro del Capitale, la sua curiosità onnivora lo spinge ad affrontare campi nuovi o poco noti, riempiendo molti quaderni di estratti e appunti su materie come «matematica, fisiologia, geologia, mineralogia, agronomia, chimica e fisica».

Pur malandato, il Marx degli ultimi anni è intellettualmente vitale e acquisisce conoscenze che mutano in parte alcune coordinate importanti del suo pensiero. Intraprende per esempio uno studio approfondito dell’antropologia del tempo; si interessa alla proprietà comune nelle società precapitalistiche; segue gli avvenimenti politici, appoggia la lotta irlandese, condannando l’oppressione inglese di quel paese e dell’India e quella francese in Algeria, paese dove si reca per motivi di salute nel 1882, alla ricerca di un clima mite (che non trova) e dove osserva con interesse i costumi sociali dei musulmani. Anche grazie a tutto ciò – ci dice Musto – egli matura una «concezione più aperta alle specificità dei diversi paesi», concependo un «approdo al socialismo diverso» da quello precedentemente formulato.

Lo studio dell’antropologia in particolare è direttamente commesso al tema del succedersi dei modi di produzione. I suoi interessi spaziano dallo sviluppo dei vincoli famigliari alle pratiche comunitarie delle società precapitalitsiche, dalla formazione dello Stato al ruolo dell’individuo. Si forma, seguendo L.H. Morgan, la convinzione che la gens e non la famiglia sia l’unità sociale più antica, e che la famiglia monogamica sia collegata al sorgere della proprietà privata. Quando Engels scriverà il celebre libro su L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, nel 1884, un anno dopo la morte del Moro, ne parlerà, con l’onestà e la modestia che tutti gli riconoscono, come di «un modesto surrogato» dello studio che l’amico non aveva potuto portare a termine. Marx ribadisce anche in quegli anni, ad esempio scrivendo al socialdemocratico olandese Nieuwenhuis, di essere contrario ad anticipare le misure che avrebbe dovuto adottare un futuro governo rivoluzionario: non esistono soluzioni sempre valide, il da farsi «dipenderà in tutto e per tutto – scrive – dalle reali condizioni storiche in cui si dovrà agire».

L’instaurazione di un sistema socialista di produzione e consumo è per lui, chiosa Musto, un processo lungo e complesso, e la stessa Comune di Parigi non costituisce un modello poiché, specifica Marx in una lettera, si era trattato della «sollevazione di una sola città, in condizioni eccezionali», guidata da una maggioranza che «non fu in alcun modo socialista, né avrebbe potuto esserlo». Insomma, un caso particolare, non un prototipo di modello rivoluzionario.
Collegato a questa ottica è il fatto che negli ultimi anni di vita Marx inizia a guardare con occhi diversi alla Russia, a lungo considerata solo un bastione della reazione. Dagli anni ’70 aveva imparato a leggere il russo e seguiva direttamente l’evoluzione socioeconomica e politica del paese.
Nel febbraio 1881, come è noto, riceve la lettera della populista russa Vera Zasuli, che gli chiede un parere sulla tesi secondo cui la comune rurale russa (Obšcina) è in grado di «svilupparsi sulla strada socialista», di organizzare la sua produzione «su basi collettiviste».

Come si è detto, Marx rifiuta l’idea di un modello universale di società socialista. Già nel novembre 1877 egli aveva preparato una replica a un altro populista russo, il critico letterario e sociologo Nikolaj Michajlovskij, autore di un articolo sul futuro della comune agricola che chiamava direttamente in causa le teorie marxiste. Più volte rielaborata, la risposta non fu però mai inviata. Restano interessanti le argomentazioni preparate per replicare a Michajlovski: richiamando un passaggio aggiunto alla edizione francese del Capitale, Marx precisa che i suoi studi e le sue previsioni riguardano la sola Europa occidentale. La storia della nascita del capitalismo qui delineata, afferma Marx, non deve essere trasformata «in una teoria storico-filosofica del percorso universale fatalmente imposto a tutti i popoli». «Tutto dipende dal contesto storico», ripete il Moro. La Russia contemporanea era già collegata al mercato mondiale capitalistico, e anche per questo avrebbe potuto forse sviluppare positivamente la sua comune rurale. I suoi contadini, secondo Marx, avrebbero potuto usufruire dei progressi del capitalismo rifiutandone gli aspetti deleteri. La Russia non doveva per forza ripercorrere la via al capitalismo propria dell’Inghilterra.

L’alternativa prospettata dai populisti russi sembra a Marx possibile: teoricamente parlando l’Obšcina può «assicurarsi i frutti coi quali la produzione capitalistica ha arricchito l’umanità, senza passare per il regime capitalistico». La «base comune della terra» gli sembra offrire «la base naturale» per una «appropriazione collettiva», mentre il capitalismo metteva a disposizione «le condizioni materiali del lavoro cooperativo».
Concetti ripresi anche nella Prefazione alla edizione russa del Manifesto del 1882, in cui scrive tra l’altro: «se la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un’evoluzione comunista».

Viene così negata in radice – chiosa Musto – quella «equiparazione fra socialismo e forze produttive» propria tanto della Seconda che della Terza Internazionale. È a partire da queste acquisizioni che tra le forze presenti nella Russia del tempo l’ultimo Marx dà maggiore attenzione ai populisti (ad esempio a quelli del gruppo Volontà del Popolo) piuttosto che ai marxisti (tra cui Plechanov) o sedicenti tali, che in una lettera a Friedrich Sorge del novembre 1880 aveva tacciato di essere affetti da «noioso dottrinarismo».