Lo sappiamo bene e lo andiamo scrivendo da molti anni: il terrorismo jihadista è fenomeno tanto potentemente iscritto nel mondo della comunicazione globale, quanto totalitario. Tale non solo in sé, per la mortifera ideologia fondamentalista e pan-islamista, e per il ricorso alla violenza estrema, ma anche per il fatto di produrre effetti totalitari.

La strategia jihadista mira, infatti, a far cadere l’avversario nella trappola, provocandone reazioni destinate ad aggravare lo stato di guerra su scala mondiale e a far emergere il versante aggressivo e repressivo delle democrazie occidentali. È accaduto più volte nel corso della storia contemporanea: si pensi alle legislazioni d’emergenza adottate dalla Francia dopo gli attentati anarchici degli anni ‘90 dell’Ottocento e, più recentemente, durante la guerra d’Algeria, ma anche dall’Italia negli «anni di piombo» e dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, in specie col Patriot Act.

In questa trappola il «socialista» Hollande è caduto in pieno. In un discorso al Parlamento dai toni marziali e patriottardi, ha annunciato una serie di misure volte a sospendere garanzie democratiche e libertà pubbliche. Fra le altre: modifica della Costituzione onde avocare a sé maggiori poteri e prolungare lo stato di emergenza di almeno tre mesi, se non ad libitum, come si teme; domicilio coatto esteso a chi, «per comportamento o frequentazioni, per intenzione o progetto», sia sospettato «di costituire una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico»; possibilità di revocare la nazionalità anche ai cittadini francesi per nascita, oltre che bi-nazionali, se «condannati per attentato agli interessi fondamentali della nazione o per un atto terroristico».

Per furore bellico e sicuritario, la risposta del presidente francese è del tutto comparabile con quella che fu data da George W. Bush alla carneficina del World Trade Center. Tre giorni fa, in un articolo sul pur compassato Le Monde, William Auderau analizzava le similitudini tra il discorso di Hollande del 16 novembre scorso e quello di Bush del lontano 20 settembre 2001: il «socialista» è riuscito quasi a eguagliare il rozzo guerrafondaio americano, pronunciando ben tredici volte «siamo in guerra», contro le quattordici del secondo.

Ancora qualche analogia. Come dopo l’11 settembre 2001, in luogo della denuncia del misero fallimento di miti e dispositivi sicuritari, vi è la loro enfatizzazione. E questa ottiene l’effetto d’incrementare allarme e panico, dei quali Daesh potrebbe paradossalmente avvantaggiarsi. A loro volta, il clima da emergenza permanente e il panico diffuso contribuiscono a incrementare xenofobia e soprattutto islamofobia. Mentre i media mainstream nostrani non fanno che generalizzare con «gli islamici» (da un po’ di giorni qualcuno lo ha sostituito con «gli arabi», credendo sia politicamente più corretto), si riaffaccia la tentazione di liberarsi di chiunque, additato come capro espiatorio, sia considerato agente del disordine e, con essa, il teorema del «nemico interno» e dunque il rischio della caccia allo straniero e all’estraneo.

Le sorti del mondo e di noi stessi sono nelle mani di tali apprendisti stregoni. Quasi incuranti della devastazione prodotta dal colonialismo e dal neocolonialismo, dall’«esportazione della democrazia» con le guerre in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, dalle perverse alleanze con gli inventori-finanziatori del terrorismo jihadista, dall’emarginazione e umiliazione inflitte per decenni alla «racaille», fingono d’ignorare una verità elementare: l’ordine dominante, il loro, cova in sé i germi della propria distruzione; la Barbarie è, in definitiva, immanente alla Civiltà.