Quando Haroldo Conti (narratore argentino sequestrato e fatto sparire nel 1976 dalla dittatura militare) scrisse nel 1970 il prologo per La gente de la casa rosa, terza raccolta di racconti di Hebe Uhart, era ormai uno scrittore affermato, autore di un pregevole romanzo d’esordio, Sudeste, e di altri titoli importanti; lei, giovane provinciale di ascendenza italo-basca, era invece una sconosciuta che, dopo la laurea in filosofia, aveva pubblicato il suo primo libro a proprie spese. Conti, tuttavia, non esitò a dedicarle una brillante presentazione in cui la accostava a Carson McCullers, e, parlando dello «sguardo marziano» di Uhart, aggiungeva: «La sua scrittura è così semplice che a tratti sembra infantile. Ma, di semplicità in semplicità, si penetra in profondità e labirinti dove può avanzare solo se si partecipa della magia di questo nuovo mondo. (Uhart) non illumina né completa una realtà conosciuta. Rivela, o meglio, è lei stessa una realtà unica, diversa».

Hebe Uhart
Hebe Uhart

E unica, diversa, «marziana», Hebe Uhart lo è ancora, a 80 anni suonati (è nata nel 1936) e dopo aver pubblicato sedici libri presso case editrici via via più importanti, fino ai Relatos Reunidos editi nel 2011 da Alfaguara, che le hanno guadagnato una definitiva visibilità. Ma l’attenzione verso questa autrice volutamente appartata aveva cominciato a crescere già nel 2003, con l’inserimento dell’antologia Del cielo a casa nel catalogo di Adriana Hidalgo, tanto da trasformare colei che per molti anni è stata considerata una «scrittrice per scrittori» in oggetto di adorazione da parte di un pubblico più vasto, pronto a riconoscerne e amarne la singolarità.
Approdata finalmente in Europa (in Spagna il critico Carlos Pardo l’ha di recente definita «una delle migliori scrittrici nella nostra lingua») e arrivata anche in Italia nel 2015 con la magistrale «nouvelle» Traslochi, Uhart ci viene di nuovo proposta dalle edizioni Calabuig attraverso i racconti riuniti in Turismo Urbano (pp. 133, euro 13; l’eccellente traduzione è di Maria Nicola), tratti da Del cielo a casa e Turistas, raccolte di epoche diverse ma collegate da una medesima scrittura minimalista, piena di sommesso umorismo e costruita su infiniti accenni e infinite possibilità di storie estratte dai piccoli fatti quotidiani, a conferma del fatto che, come la scrittrice non si stanca di sostenere, qualsiasi cosa «se ben raccontata può trasformarsi in letteratura».

Perchè ciò avvenga, però, prima di tutto bisogna saper guardare «un po’ di più di quanto guarda la gente», saper ascoltare per cogliere intonazioni e forme inconsuete, e infine, sapersi ancorare all’esperienza, senza per questo finire tra le fauci spalancate del realismo – pochi scrittori, del resto, sfuggono come Uhart all’etichetta di «realista», o, se è per questo, a qualsiasi etichetta- , e accendendo nel lettore il dubbio che in realtà l’autore stia parlando d’altro: per esempio dell’alterità infantile, dell’immigrazione, dell’ascesa sociale, della condizione femminile, della vecchiaia, dell’impossibilità dell’amore, del razzismo o di filosofia (non per niente l’autrice l’ha insegnata per anni all’Università di Buenos Aires).

Sarà per questo, forse, che la prosa di Hebe Uhart possiede la stessa levità ondivaga di una conversazione e somiglia a un album di istantanee, a un flusso di voci registrate strada facendo, a un mosaico di immagini, parole e personaggi in apparenza comuni e insignificanti, ma che finiscono per rivelare la straniante bizzarria di una inesistente normalità.
Come nei testi di Felisberto Hernandez, del quale Uhart si dichiara ammiratrice incondizionata, anche in quelli di Turismo urbano ritroviamo una passione per il dettaglio che scompone la realtà in minuti e frammenti; e, come in certe Acqueforti di Arlt, assistiamo al dispiegarsi del gusto per la parlata popolare, l’oralità, i modi di dire, i vocaboli che nel loro percorso dal centro al margine vengono rimodellati dalla voce di vecchie signore, bambini, zie matte, immigrati, domestiche e di coloro che l’autrice, allergica al latente razzismo delle espressioni politcamente corrette, continua a chiamare indios.

Per chi conosce le opere precedenti dell’autrice, inoltre, è proprio qui, nei racconti di Turismo urbano, che si assiste all’inizio di un passaggio cruciale, quello che ha visto Uhart transitare dalla narrativa pura alla cronaca di viaggio cui si è dedicata negli ultimi anni, rinnovando con tocco inconfondibile un genere «cresciuto con il colonialismo» (la definizione è tratta da una delle sue lezioni di scrittura, di cui dà conto Liliana Villanueva, alunna fedele, in Las clases de Hebe Uhart) e privilegiando non le mete più esotiche o remote, ma paesetti ai confini del nulla, cittadine dell’interno, luoghi di frontiera situati in Argentina e in altre nazioni latinoamericane, dove lo spagnolo ha risonanze diverse e, percepito da quella sorta di «orecchio assoluto» che la scrittrice sembra possedere, accresce smisuratamente il suo fascino.

Che si tratti del vagare di qualche intellettuale velleitario o ubriaco da una strada all’altra di Buenos Aires, della gita di un anziano poeta in una città che vuole rendergli omaggio, dell’arrivo di una conferenziera in uno sperduto centro di provincia, o del soggiorno in Germania di un gruppo di scrittori latinoamericani invitati a un congresso, il viaggio è appunto il tema dominante di questi otto racconti, e si intreccia all’ironica e svagata (e a tratti davvero esilarante , come in La colletta, Organizzazione di eventi o Il centro culturale) rappresentazione di un mundillo culturale sempre pronto a esibirsi.

L’intellettuale e lo scrittore viaggianti, che celebrano se stessi volando da un incontro a un festival, ma anche il cinico «organizzatore di eventi» o il dilettante volenteroso al servizio della Cultura, vengono osservati e descritti da Uhart con spietata eppure indulgente curiosità e, a vederli con la lente di ingrandimento che ci viene offerta, diventa inevitabile parteggiare per quanti, tra loro, si sentono disperatamente fuori posto tra i colleghi «esperti in convegni», o impongono senza il minimo scrupolo la propria eccentrica e oltraggiosa diversità, come il meraviglioso poeta di La colletta, capace di illuminare brevemente la vita di uno studentello borghese: perché la poesia (quella poesia che, dice il vecchio don Arturo, «non vende perché non si vende») in fin dei conti serve davvero a qualcosa.