Se nel mondo del cinema i seguiti dei film sono un’abitudine consolidata, anche se forse non sempre salutare, nel rock i sequel sono meno frequenti, ma non sono certo delle rarità. Celebri canzoni di successo hanno avuto una seconda parte e una seconda vita. A volte si è trattato solo di esigenze di business e della necessità di replicare il successo di un singolo milionario. In alcuni casi ci sono state però vocazioni creative e gli artisti sono ritornati sui contenuti di una canzone a cui erano legati e hanno dato una continuazione alle storie raccontate. Ci sono stati anche artisti che si sono riappropriati di famose canzoni non loro, offrendo una personale rilettura o prosecuzione di pezzi storici. Però, così come nel cinema, difficilmente i sequel hanno saputo superare l’originale, con qualche sorprendente eccezione.

Buddy Holly – “Peggy Sue” (1957), “Peggy Sue Got Married” (1959)

La sua vita è stata una meteora, ma la sua influenza sul mondo del rock è rimasta immortale. Buddy Holly fu il primo artista rock che diede un seguito a un suo brano. Il suo singolo più amato fu “Peggy Sue” del 1957, un pezzo che il cantante aveva pensato per sua nipotina Cindy Lou, ma che in corso d’opera mutò titolo e testo per compiacere il batterista della sua band, Jerry Allison. Il musicista infatti voleva fare colpo su una majorette della scuola, chiamata Peggy Sue, con cui stava uscendo (vedi Alias del 13/10/2012). La canzone non solo ebbe successo nelle classifiche e nelle radio, ma consentì ad Allison di conquistare Peggy Sue e di portarla all’altare. Due anni dopo Buddy scrisse quindi “Peggy Sue Got Married” per celebrare l’evento e dare un lieto fine alla storia. Fu l’ultima cosa lieta nella brevissima vita di Holly che morì nel febbraio 1959. La canzone venne pubblicata in un 45 giri postumo (un’altra prima volta nella storia del rock). Il singolo-sequel darà poi il titolo a un celebre film di Francis Ford Coppola, divenuto poi a sua volta un musical.

Chuck Berry – “Johnny B. Goode” (1958), “Bye Bye Johnny” (1960)

Johnny B. Goode” sarà sempre sinonimo di rock’n’roll. E di Chuck Berry. Il brano sembrava autobiografico e Berry aveva scelto il nome ispirandosi alla via in cui era nato, Goode Avenue a St. Louis, e a un suo compagno musicista, Johnnie Johnson. Il successo del 45 giri lo spinse a pubblicare un seguito due anni dopo. “Bye Bye Johnny” vede Johnny salire su un bus della Greyhound e partire in direzione di Hollywood alla ricerca di fortuna con la madre che gli dice addio. Johnny B. Goode diventerà un alter ego dello stesso Chuck e comparirà in altre decine di brani. Nel 1975 il cantautore inglese Leo Sayer scrisse “The Last Gig of Johnny B. Goode” dove Johnny è una vecchia star del rock ormai in declino.

Chubby Checker – “The Twist” (1960), “Let’s Twist Again” (1961)

The Twist” nacque come lato B di un singolo di rock’n’roll, pubblicato nel 1959 e firmato dai misconosciuti ma pionieristici Hank Ballard & The Midnighters. Il brano non ebbe nessuna eco, ma nel settembre 1960 divenne una hit planetaria nella versione dell’allora esordiente Chubby Checker. La mania del ballo twist fu contagiosa e inarrestabile tanto che il singolo andò al primo posto nella classifica USA per due volte a mesi di distanza. Tutti impazzivano per il twist: Chubby decise così di lavorare anche a un seguito dando alle stampe un’altra hit “Let’s twist again”. In Italia il seguito è ricordato anche più dell’originale grazie alla versione di Peppino di Capri che arrivò al primo posto delle classifiche.

Merle Haggard – “Workingman’s Blues” (1969); Bob Dylan – “Workingman’s Blues #2” (2006)

Istituzione del country, Haggard è sempre stato visto un po’ come il volto più classico e bacchettone della musica americana di tradizione. La sua “Working Man Blues” era un inno dedicato alla classe operaia americana, ma in una visione molto conservatrice se non ingenua, del tipo “lavora sodo e stai zitto”. L’amico Bob Dylan (i due hanno fatto anche un tour assieme qualche anno fa) ha pensato bene, a molti anni di distanza, di dare una continuazione a quella canzone per l’album Modern Times. Ha però dipinto un affresco più cupo e infinitamente più strutturato. Il lavoratore ingenuo che sgobba e tace di Haggard è diventato un “proletario” a tutto tondo, sfruttato da un economia crudele (“Dicono che gli stipendi bassi sono la realtà se vuoi competere all’estero”) cova risentimento e piani di vendetta, ma si abbandona anche a sogni e visioni romantiche (“Sono solo e ti sto aspettando e guidarmi in un ballo gioioso”).

David Bowie – “Space Oddity” (1969), “Ashes To Ashes” (1980)

L’anno scorso l’astronauta canadese Chris Hadfield decise di cantare “Space Oddity” nella stazione orbitante internazionale ISS, realizzando un video e portando nella sua location ideale il grande classico del Duca bianco. L’avventura del protagonista della canzone, Major Tom, fu messa in musica da Bowie dopo aver visto al cinema “2001: Odissea nello spazio” sotto l’effetto di varie droghe (fu così che Odyssey diventò Oddity). L’astronauta del brano decide di staccare ogni comunicazione con la terra e vagare per libero lo spazio. Si tratta di una canzone tanto spaziale quanto lisergica. La conferma si è avuta nel 1980 quando, per l’album Scary Monsters, David decise di scrivere un seguito alle avventure dell’astronauta ramingo in “Ashes To Ashes”. Major Tom ricontatta il Ground Control e dice di essere felice, ma la base lo giudica ormai un “junkie”, un drogato. Sono in molti a pensare che questa avventura tra le stelle sia in realtà solo un’allegoria della dipendenza di Bowie. Sta di fatto che Major Tom compare anche in altre canzoni a iniziare da “Hallo Spaceboy” sempre di Bowie. Le altre apparizioni sono apocrife. Nel 1983 il cantante synthpop tedesco Peter Schilling narrò il ritorno verso la terra del cosmonauta in “Major Tom (I’m Coming Home)”. Nel 2003 l’artista canadese K.I.A. pubblicò un altro sequel non ufficiale intitolato “Mrs. Major Tom” dove emerge il punto di vista della moglie dell’uomo delle stelle. Il brano, curiosamente, è finito in una versione cantata da Sheryl Crow in un album di canzoni scelte da William Shatner, il capitano Kirk di Star Trek, intitolato Seeking Major Tom (Alla ricerca di Major Tom). Odissea nello spazio, la stazione orbitante, astronauti veri o narrati, viaggi lisergici, Star Trek,… in questa saga non manca davvero nulla.

John Lennon – “God” (1970); U2 – “God Part II” (1989)

Pubblicata nell’autunno 1970, quando i Beatles erano ormai andati in pezzi, “God” è forse uno dei brani più amari e critici firmati da Lennon. John voltava pagina nella sua vita e chiudeva amaramente una parabola generazionale. In un atto di dolore ateo e ai limiti del nichilismo, metteva sullo stesso piano e dichiarava di non credere a Hitler, a Gesù, alla Bibbia, a Kennedy, a Elvis, a Dylan e ai Beatles e chiosava: «Credo solo a me. Yoko e me. Il sogno è finito». 19 anni dopo gli U2 si sentirono in dovere di scrivere un secondo capitolo di questa storia, quasi per cancellare l’ombra cupa che quel brano aveva allungato sulla memoria di Lennon. Ai tempi l’immagine dell’ex-Beatle era stata anche offuscata da una biografia scandalistica scritta da Albert Goldman. Bono riprendeva lo stile del brano originale, stendeva un suo personale manifesto e sembrava celebrare i veri ideali di John e la sua intramontabile eredità: non l’amarezza, la misantropia e la delusione, ma la pace, l’amore, la speranza in un futuro migliore. Non mancava neppure una critica ai gossip: «Non credo a Goldman, il suo tipo è come una maledizione. L’instant karma lo raggiungerà se io non lo prendo prima». Un seguito senza dubbio apocrifo, ma nobilissimo.

Bruce Springsteen –Thunder Road” (1975), “The Promise” (1977)

The Promise” è probabilmente lo “scarto” più celebre e più amato della storia del rock. Il brano fu scritto da Springsteen nel 1977. Destinato in un primo tempo a finire nell’album Darkness on the Edge ot Town, non trovò spazio in quel disco e venne accantonato. Bruce pensò di inserirlo in un LP successivo, ma alla fine la canzone rimase nel cassetto, circolando in una versione pirata e diventando un oggetto di culto. Quando nel 1999 Springsteen raccolse le sue outtakes nel cofanetto antologico Tracks, escluse ancora il brano che comparve ufficialmente per la prima volta nell’edizione ridotta 18 Tracks. Ha trovato infine la sua giusta dimensione nel 2010 quando il rocker pubblicò sotto il titolo The promise le ricchissime session di Darkness. Per dichiarazione dello stesso Spingsteen il brano è un ideale seguito di “Thunder Road” e la “strada del tuono” ritorna nel ritornello del pezzo. I personaggi cambiano rispetto alla prima parte: non c’è la solitaria e malinconica Mary, ma c’è l’operaio Johnny, c’è Billy che lavora in città, c’è il musicista sognatore Terry (quello di “Backstrreets”?), ci sono le speranze di una gioventù dai sogni troppo grandi. E’ l’ideale prosecuzione dell’affresco generazionale di Born to run. Una canzone bellissima e sfortunata come i ragazzi di cui parla.

Ramones – “Judy Is A Punk” (1976), “The Return Of Jackie And Judy” (1980)

In un minuto e mezzo di punk rock gli esordienti Ramones dedicarono a loro due scatenate fan la canzone “Judy is a Punk”. «Jakie è una punk, Judy è una disadattata», recita il testo. Su di loro la canzone faceva aleggiare un mistero buffo. Sono andate a Berlino con il circo su ghiaccio? Sono morte? Sono diventate delle terroriste? La brevissima canzone non forniva risposte, e lasciava il dubbio. Quattro anni dopo la band rispose con il seguito “The Return Of Jackie And Judy” pubblicato nell’album End Of The Century. «Sono venute a New York solo per vedere i Ramones (…) Sono state cacciate perché non avevano un pass». Insomma Judy e Jakie erano ancora in giro e ancora fan della band. Ma sono davvero esistite? Il mistero non è mai stato chiarito come neppure la voce secondo cui sarebbero poi morte in un incidente aereo. Oggi che anche i Ramones se ne sono andati la leggenda continua.

Rush – “Fear Series”: “Witch Hunt” (1981), “The Weapon” (1982), “The Enemy Within” (1984) “Freeze” (2002)

Il batterista e autore dei testi dei Rush, Neil Peart, è soprannominato “Il Professore” non a caso. Il trio canadese come tante band progressive non ha mai lesinato progetti in più parti e concept musicali, ma ha pure sperimentato una tetralogia musicale ispirata al concetto di paura e sviluppata in un gruppo di canzoni pubblicate a anni di distanza nota ai fan come “The Fear series”. I brani nacquero dopo un colloquio di Peart con un anziano che gli suggerì come le scelte dell’uomo fossero dovute sostanzialmente solo alla paura. «Decisi così – ha spiegato Neil – di abbozzare tre ‘teatri della paura’: come la paura lavora in noi (“The Enemy Within”), come diventa qualcosa che ci fa del male (“The Weapon”), e come nutre la logica del branco (“Witch Hunt”)». I primi tre capitoli uscirono su tre album diversi e, tanto per rendere le cose più difficili, cronologicamente invertiti. “Witch Hunt” la terza parte fu pubblicata per prima nel 1981 nell’album Moving Pictures, poi venne la “part II” “The Weapon” in Signals del 1982, e infine la prima parte “The Enemy Within” nel 1984 in Grace Under Pressure. Il progetto fu concluso nel 2002 nella raccolta Vapor Trails con “Freeze” suggello finale a questa saga filosofico-musicale.

Metallica – “The Unforgiven I” (1991), “The Unforgiven I” (1997), “The Unforgiven III” (2011)

Come accade al cinema tanto più un film è amato, tanto più i seguiti sono visti con sospetto. Così accade per questa trilogia nei cui confronti anche molti fan dei Metallica storcono il naso. Il primo capitolo comparve sul Black Album del 1991. Una metal ballad con lampanti echi morriconiani con un testo che esprime ribellione e frustrazione e che divenne subito un classico per i seguaci della band. Nel 1997 però, per il disco Reload che già assemblava molti brani avanzati dalle session dell’album precedente, i Metallica tornarono con “The Unforgiven II”, ma la band sembrava un po’ fuori fuoco e rimestava vecchie idee. Era una replica, più una zoppicante power ballad che un dignitoso seguito. Nel 2011 ecco il terzo capitolo, uscito in Death Magnetic, la ballata metallara è diventata una bella cavalcata di più di sette minuti, ma che del brano originario conserva solo il titolo.

Tool – “Message to Harry Manback” (1996), “Message to Harry Manback II” (2000)

In attesa di diventare rockstar Maynard James Keenan e Danny Carey, rispettivamente cantante e batterista dei Tool, risparmiavano soldi condividendo stanze in affitto con aspiranti musicisti destinati poi a minor fortuna. Per un certo periodo vissero con Gary Helsinger di una band chiamata Green Jelly. Un giorno si presentò alla loro porta un italiano che si qualificò come amico di amici. Gli fu dato un letto, ma presto ci si accorse che non era amico di nessuno, rubava e usava a suo piacimento il telefono. Fu cacciato senza complimenti. Lo sconosciuto italiano si vendicò tempestando la segreteria telefonica di Helsinger di irriferibili insulti in italiano e di minacce del tipo “spero che ti venga il cancro”. Anni dopo, la registrazione fu musicata e inserita in un intermezzo dell’album Ænima, diventando un piccolo oggetto di culto. Alla band venne chiesto infinite volte chi fosse Harry Manback e i fan di tutto il mondo hanno potuto apprezzare la ricchezza della volgarità italica. I Tool hanno tenuto per un po’ il mistero, rivelando poi la vicenda e svelando come il nome Harry Manback fosse una citazione da uno sketch del comico Bill Hicks. Del misterioso italiano, diventato a sua insaputa popolare, non si è mai saputa però l’identità. Per compiacere però gli ormai tanti fan dello stalker nel 2000 nella raccolta Salival i Tool decisero di pubblicare una seconda parte degli insulti telefonici.