«È la frontiera. Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze». Linea immaginaria, concetto etico oltre che politico, bordo poroso, confine muto e più spesso intermittenza da cui si intravede la propria e altrui libertà, La frontiera (Feltrinelli, pp. 320, euro 17, recensito sulle pagine di questo giornale il 14 gennaio 2016, qui e qui) è anche il titolo di un volume tanto bello quanto terribile, composto con padronanza e grande sensibilità da Alessandro Leogrande.

Le storie raccolte sono diverse. Si può leggere di Hamid che ha 16 anni quando sopravvive al terribile naufragio davanti alle coste libiche che causa 650 morti. Nei tre anni precedenti quel 6 maggio del 2011, Hamid lavora a Tripoli, arrivato dalla Somalia per scampare alla miseria. La situazione politica cambia repentinamente ed è costretto ad andarsene. Le storie non sono una parentesi dell’esistenza ma la riconnotano interamente. Così la storia di Shorsh, curdo iracheno che intervalla tutto il libro e lega i vari capitoli con l’oscillazione tra visibile e invisibile. Oppure Aamir, che per primo e ancora ragazzino ha percorso la via balcanica. Tutte o quasi sono state raccolte alla scuola di italiano Asinitas di Roma. Non sono però interviste, sono invece conversazioni che si dipanano in carne viva.

Perché la frontiera?

Le ragioni sono molteplici. La parola «frontiera» domina la nostra comunicazione giornalistica, pubblica; eppure, se proviamo a spiegarla, ci rendiamo conto che non ha una definizione né una sua collocazione geografica precisa. Seguendo la cronaca degli ultimi anni vediamo che i punti di frontiera (se per frontiera intendiamo ciò che divide il mondo di qua dal mondo di là) sono stati costantemente ridefiniti, ridefinite le rotte e i punti di sutura. Penso che la frontiera nella sua fluidità, liquidità e difficile afferrabilità, sia davvero il paradigma del mondo contemporaneo. E di frontiere si ridiscute anche quando qualcuno pensa di arginare i flussi migratori alzando un muro. Al di là della sua immoralità, della poca efficacia, vi è qualcosa di straordinariamente vecchio nel muro, il fatto che si è convinti – per dire – che costruendolo a Calais o al confine tra Macedonia e Grecia, si possano azzerare i problemi. L’effetto più immediato è invece quello della costrizione e creazione di un assembramento – al di là del muro – che è l’esatto rovescio della nostra società. Nel concreto, per aggirare il muro, i viaggi diventano più pericolosi, costosi e complicati.

Lei ha deciso di scrivere il libro circa due anni fa, dopo il tragico naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013…

Ciò che è confluito nel libro attraversa quindici anni di attivismo, volontariato, militanza politica sul fronte della migrazione. Per certi versi c’è anche un aspetto autobiografico che racconta una generazione, non nel senso anagrafico del termine ma di persone che qui in Italia, in Europa, hanno attraversato tutto questo, l’hanno interiorizzato e utilizzato per creare dei ponti e delle esperienze relazionali che negli anni si sono sedimentate. Il naufragio di Lampedusa ha costituito per me una spinta molto forte non solo nella decisione di raccontarnei i tratti, di incontrare i sopravissuti, di rimettere a posto gli eventi ma di un’analisi politica nel momento in cui mi sono accorto che su 368 morti, 360 erano eritrei.

Cosa ne ha evinto?

Mi risulta che la dimensione della questione eritrea, che è una questione politica, sia stata assolutamente eliminata dal dibattito pubblico o comunque molto ridimensionata, salvo dal «comitato 3 Ottobre». Mi è parso che in quel caso abbiano agito due rimozioni: quella del passato coloniale ma anche la profonda ignoranza del presente dell’Eritrea. Se non ne sappiamo niente non discutiamo di quella dittatura. Questo punto, a sinistra, ci dovrebbe riguardare perché quella dittatura è della generazione della guerra di liberazione nazionale. Il Fronte Popolare di Liberazione Nazionale che ha condotto una guerra eroica contro l’occupazione etiopica è stato laico, socialista, fondato sulla parità uomo/donna, pieno di ex studenti e di operai che avevano organizzato una guerriglia contro l’esercito etiopico, un esercito forte, il secondo esercito del continente, appoggiato dall’Unione Sovietica. Ebbene, quel fronte socialista nel momento in cui ottiene l’indipendenza del paese nel giro di pochissimi anni, seguendo la più classica delle logiche staliniane, cioè degenera e scivola verso una dittatura; si instaura il tribunale speciale, l’istituzione del servizio militare obbligatorio a vita, il ricorso al gulag, all’eliminazione di qualsiasi forma di opposizione politica, è questo che crea l’esodo eritreo ed è una questione politica. Invece ho rilevato come vi siano stati degli ostacoli nel caso di quel naufragio, per esempio la mancata riflessione sul fondamento della decolonizzazione e l’assenza di sguardo politico. A mio avviso è qualcosa che ha funzionato riguardo la vicenda eritrea ma può essere esteso all’immigrazione in generale.

Quali sono le narrazioni che si mettono in atto?

Vi è la narrazione da addetti ai lavori quindi se c’è una questione di immigrazione e arrivano delle persone, dobbiamo discutere su come sono i centri d’accoglienza, quella giusta, la mediazione. Sono tutte cose sacrosante, sia chiaro, ma non è il punto. Altrimenti si fornisce una narrazione che poggia su un discorso vagamente umanitario; allora arrivano dei poveri cristi e vanno protetti come se fossero degli infanti che non hanno voce. Entrambe queste descrizioni eliminano l’elemento politico che è quello delle cause della partenza, del perché scappano, perché arrivano in un barcone rischiando di morire dopo aver attraversato il deserto. Domandarselo è essenziale. Infine vi è l’avversione nei confronti delle cause. Analizzare quelle cause in relazione sempre all’Eritrea, alla Siria, alla Somalia è fondamentale ma generalmente non viene fatto. Questa cecità ci impedisce di cogliere l’esodo per quello che è, ovviamente nelle cause che sono diverse da paese a paese e che sono molto complicate. Se quindi è vero che vi sono responsabilità occidentali attinenti al colonialismo e al neocolonialismo, ci sono anche a volte delle storie andate a male in Africa, nel Medio Oriente anche con delle responsabilità evidenti delle elite locali, dell’avvitamento dei gruppi dirigenti, dei governi. Insomma i viaggi sono il termometro del mondo, è come se fossero la punta dell’iceberg di quella che è la trasformazione in atto del gruppo di forze che si determina intorno alla frontiera, o anche intorno alle frontiere intese nel senso più dilatato possibile.

Raccogliere le storie può contribuire a ribaltare il punto di avvistamento?

Le vite sono complicate e allora dopo aver passato del tempo con delle persone che hanno deciso di raccontare la loro storia, l’hanno messa al centro della narrazione, consente di elaborare un intreccio che tenga presente come i viaggi partano da molto prima di Lampedusa. Durano molto, nello spazio e nel tempo, e questo rilievo spesso viene omesso o schiacciato: quanto lunga sia la vita, la parte del viaggio di chi si mette in cammino prima di arrivare a Lampedusa. Del resto, con l’immagine del barcone neghiamo la sua dimensione umana. E questo tratto profondamente deumanizzante arriva direttamente nel nostro sguardo. Ciò detto, dobbiamo avvicinarci il più possibile alla condizione di chi guarda la nostra costa dal barcone ma non credo di poter entrare nel corpo di un eritreo, tanto giornalismo si fonda sul travestitismo, qua c’è una procedura neocoloniale nel voler dire e descrivere il colonizzato. Lo sguardo su di lui non è mai innocente. C’è un procedimento empatico che ci permette di avvicinarci, una strategia dell’incontro che diventa strategia narrativa. Per esempio, il momento giusto per raccogliere una storia è distante dal dramma del naufragio. Le storie che sono presenti nel libro le ho raccolte all’interno della scuola di italiano Asinitas a Roma dove peraltro avevo collaborato, in un contesto quindi di mutuo riconoscimento in cui possono nascere relazioni che solo poi producono confronti e racconti

A proposito di sguardo, il libro si conclude con un capitolo in cui riflette sul martirio di San Matteo di Caravaggio nella chiesa di San Luigi dei Francesi…

In quel quadro viene dipinta una mattanza, un carnefice, un sicario che arriva per uccidere Matteo, questo vecchio che sta a terra mentre prova a parare il colpo e l’altro con la spada lo uccide. Intorno si respira ciò che accadrebbe se ammazzassero uno qui all’improvviso, tutti scapperebbero, si ritrarrebbero impauriti. Da questo movimento verso l’esterno alle spalle del sicario c’è un uomo fermo che osserva quella scena ed è lo stesso Caravaggio. Quest’uomo ha uno sguardo empatico con la vittima, è dalla parte della vittima eppure non riesce ad arrestare tutto ciò che vede. Credo che l’impasse dello sguardo, straordinario per il modo in cui lo riprende Caravaggio nella sulla debolezza, ci restituisca anche la nostra fragilità e sia un po’ il paradigma di ciò che è il nostro sguardo nei confronti della mattanza del mondo. Anche quando è sinceramente simpatetico si dimostra e si scopre impotente. Ovviamente credo che sia proprio questa l’impotenza che va tematizzata e va combattuta. Anche in questo caso è una faccenda politica.