Può l’analista gestire il proprio lavoro senza mai sentirsi toccato nel suo modo più personale di essere e entrare in crisi? La domanda è stata posta al «Colloquio» organizzato il weekend scorso dal Centro di Psicoanalisi di Palermo e avente come tema il «controtransfert».

Il controtransfert è la reazione dell’analista al “ transfert” del paziente. Il transfert è la tendenza universale a trasferire nelle relazioni significative della vita aspetti conflittuali rimossi della propria infanzia nella speranza che possano essere risolti. Anche il controtransfert ha carattere universale: ci relazioniamo con le persone a cui siamo affettivamente legate, accettando, inconsciamente, di abitare, in parte, la scena della loro storia obliata.

L’analisi è impostata in modo da facilitare lo sviluppo di entrambe le correnti, che sono fatte della stessa materia del sogno, il luogo in cui i vissuti rimossi tornano alla vita. Attraverso la comprensione del posto che inconsciamente occupa, di volta in volta, nella storia del paziente, che torna al presente, l’analista può accedere alla natura più profonda della domanda che gli è rivolta. Ciò gli consente anche la riparazione delle aree di una propria cecità nei confronti della relazione, l’elaborazione della riluttanza ad affrontare questioni che attivano i propri conflitti inconsci.

L’analista è impegnato in modo più diretto quando incontra il paziente a partire dal proprio desiderio e mette in discussione il proprio modo di essere nel mondo. L’analisi riceve dalla madre del paziente in eredità il modo in cui lei l’ha accolto. La madre accoglie il bambino in due modi opposti. Per certi aspetti proietta su di lui parti irrisolte di sé e, affidandogli un ruolo messianico, rimanda al futuro, in modo consolatorio, l’incontro con l’inconsueto.

Nella direzione opposta, il nuovo arrivato attiva in lei il desiderio di rimettersi in gioco, accettando le perturbazioni necessarie di cui è foriero il cambiamento. Più la madre (sostenuta dal padre) riesce a mantenersi nella seconda prospettiva, più il bambino è vivo e desiderabile e la madre gode della riapertura dei propri confini con la vita.

L’analista deve farsi carico di situazioni in cui la madre non è riuscita a far sentire il figlio pienamente autorizzato a essere vivo per conto suo. Nelle condizioni più drammatiche il paziente lotta per evadere dalla prigionia di uno sguardo esterno alla sua soggettività, che ha preconfezionato la sua posizione nel mondo. Non può farlo se non destabilizza l’assetto dell’analista, obbligandolo a uscire dal suo centro di gravità, a esporsi, rischiare. L’analista è in difficoltà: la persona che cura si è posta fuori dall’obnubilamento della propria esistenza e non vuole essere interpretata, ma vista come se fosse arrivata al mondo per la prima volta.

La domanda del paziente, inevitabilmente contraddittoria e confusa, disorienta. L’analista rischia una crisi perturbante d’identità, la confusione dei propri interessi con quelli dell’altro (il caso di Jung con la Spielrein). Tuttavia, questa è per lui l’opportunità di andare oltre la paura che oscura il nostro oggetto di desiderio, al punto di fare dell’oscurità la cosa desiderata.
Scoprire che l’irriducibile differenza dell’altro, percepita come minaccia di destabilizzazione della propria identità (il fondamento della paura), è per costui l’unica possibilità di sentirsi vivo. Chi è veramente vivo non ci minaccia, il pericolo viene dalla non vita che invade la vita. Liberare la vita dalla morte, attraversando una crisi delle proprie vedute, è la vocazione di fondo dell’analista.