Il «villaggio dei container» circondato dai condomini prefabbricati all’epoca della Ddr. Un modello di accoglienza per rifugiati e migranti che il Senato di Berlino immagina di replicare ovunque. La vita quotidiana di 400 siriani, iracheni, afgani (più alcuni magrebini e bosniaci) scandita fra cucina, asilo, sala giochi e computer, laboratori, aule per i corsi di tedesco base.
Via Salvador Allende civico 2, quartiere di Köpenick a 17,5 chilometri da Alexanderplatz, 59.200 residenti nel profondo Est. Al cancello d’ingresso del Containerdorf un gruppetto di siriani fuma. Achmed scappato da Aleppo compulsa il cellulare perché da una settimana non ha più notizie della famiglia: «Ecco, guardate. Questi erano i miei vicini di casa…». Nello schermo compaiono le raccapriccianti immagini video del padre che estrae dalle macerie la testa della figlia piccola, mentre la moglie avvolge in un tappeto i cadaveri martoriati dei due fratellini. Per lui, ora, l’Europa combacia con Berlino o con Bassano del Grappa nel Vicentino dove da decenni è emigrato uno zio.

«Abbiamo aperto la struttura nel 2014, anche se siamo presenti nel quartiere fin dagli anni ‘90» spiega Peter Hermanns, responsabile per Berlino e Brandeburgo di Internationaler Bund che gestisce il centro di via Allende. «Il Land ha allestito i prefabbricati; spetta agli uffici competenti garantire permessi e sussidi ai migranti; noi assicuriamo tutto il resto, cibo compreso. Qui arrivano molti profughi che sono già passati dalla prima accoglienza a Moabit, dove nelle ultime settimane il flusso è scemato. Ci aspettiamo comunque un calo rispetto al picco dell’anno scorso. Ovviamente, la situazione richiede sempre attenzione e impegno. Soprattutto per i bambini, anche perché abbiamo avuto casi di varicella. Nonostante le diverse attività che organizziamo, è innegabile che dopo sei mesi per singoli e famiglie diventi pesante continuare ad aspettare».
Il «modello Köpenick» rappresenta in ogni caso un punto di riferimento obbligato. Certo, si tratta pur sempre di container anche se dai colori sgargianti. Stanze da 15 metri quadri, cucine e bagni in comune, un cortile in mezzo ai blocchi. Tuttavia, funziona: non solo dal punto di vista del costo edilizio. Il «villaggio» confina con la scuola di quartiere e dall’altra parte della strada ci sono il campo sportivo e il centro sociale. L’integrazione passa poi per il vicino capolinea del bus 269, l’ospedale a due passi, la vocazione popolare dei palazzoni in stile sovietico.

Così nel Containerdorf arrivano gli ultras dell’Fc Union, la squadra di calcio di Berlino Est: non solo hanno messo a disposizione dei migranti la loro sede nel vicino stadio, ma regalano giochi ai più piccoli e sono sempre a disposizione. Proprio come Hanna, 10 anni, che si improvvisa guida: «Vi accompagno io, i container sono davanti a casa mia». È appena uscita da scuola e cammina spedita sul marciapiede opposto al grande bosco che «sfocia» nel Müggelsee, la spiaggia della capitale fin dall’inizio del Novecento. I Plattenbau si susseguono: dieci e più piani dall’architettura monotipo, condomini di periferia uguali a se stessi, comprati in blocco dalle società dell’Ovest a cavallo del crollo del muro. Hanna gira l’angolo, si infila in un sentiero tra gli alberi e apre un cancelletto di legno. È sempre Allende Strasse, ma la pila dei container si mimetizza all’ombra del cemento armato.

A fianco del murales con farfalla e pettirosso della scuola elementare, le prime finestre con gente che telefona o scruta l’orizzonte. Nessuno vuole farsi fotografare: «L’ingresso è dall’altra parte, dovete fare il giro e chiedere dei responsabili» dice in inglese un ragazzo kosovaro. Gli altri raccontano la loro personale odissea. Il curdo che sapeva di non avere più futuro nella morsa di Erdogan e Assad. L’afgano che ci ha messo sei mesi per scoprirsi davvero… tedesco. La famiglia dell’Iraq che non vuol più sentir parlare di sciiti e sunniti.

Seguendo la bassa recinzione verde smeraldo, si approda al «tunnel» del centro d’accoglienza. Niente security né controlli di badge come impone Tamaja che ha «vinto» l’appalto per la gestione dell’ex aeroporto di Tempelhof. In via Allende la sorveglianza c’è ma è discreta, rispettosa, umana. L’unico avviso appeso alla porta principale invita alla cautela rispetto ai casi di varicella registrati ultimamente. La libertà di movimento degli ospiti è assoluta: in tasca il permesso temporaneo di soggiorno, così come il vademecum dell’azienda di trasporti scritto in arabo con le informazioni vitali (sedi delle ambasciate irachena e siriana, centro arabo-tedesco per l’integrazione, magazzino con vestiti di seconda mano, la casa per i minori non accompagnati).

Nel via-vai di gente resta seduto sulla panchina un emigrato del Montenegro. «Non scappo dalla guerra come gli altri, ma cerco un lavoro in Germania. Ormai siamo in pochi dei Balcani: solo qualcuno viene da Somalia o dal Maghreb». Salendo le scale al primo piano c’è la cucina: tre donne con l’hijab, sorridenti, utilizzano le piastre elettriche per preparare pane arabo. In corridoio cammina la famiglia tipo dei rifugiati siriani. Coppia giovane con il secondo figlio nel passeggino. Sono usciti dalla «stanza doppia» con la porta comunicante che permette una vita più normale.

La giornata degli ospiti a Köpenick è scandita dalle lezioni di tedesco nell’aula che riproduce le nozioni elementari della grammatica. In alternativa IB e i volontari offrono corsi di ballo e cucito, la ciclo-officina, ma ci sono anche il programma del Sommerfest di Radio Eins e i consigli sulle schede telefoniche dei gestori tedeschi.

L’attività più preziosa è l’asilo interno, spazio attrezzato a misura di mamme e bambini con la presenza di personale specializzato. Nell’altra ala del Containerdorf non manca la piccola biblioteca, mentre una sala è occupata dalle postazioni di pc a beneficio di chiunque voglia connettersi con i parenti o la burocrazia tedesca.

Un bambino di Sarajevo vorrebbe giocare a biliardino ma come tutti deve rispettare l’orario di apertura della ludoteca, dove fra i giochi da tavolo sono naturalmente banditi quelli di guerra. Al massimo, due tiri al bersaglio con le freccette tipiche dei pub anglosassoni.

Sempre in via Allende, due chilometri più in là, svetta la soluzione «tradizionale» dell’inserimento: in una palazzina anni ‘70 con la facciata originale abita un centinaio di profughi e migranti. Veri appartamenti, gestione condominiale, un piccolo giardino con le giostrine. Eppure l’atmosfera è più cupa e meno familiare rispetto alla vita nei container. Forse per questo il «modello» del villaggio prefabbricato convince gli amministratori locali, che hanno messo in cantiere un mega progetto per 15 mila persone con una trentina di strutture analoghe disseminate in tutta la capitale, ovest compreso. Costo stimato dell’operazione 78 milioni di euro. Prima dell’estate sarà al vaglio dell’aula del Senato del Land.

Ma il futuro è Tom (acronimo che in tedesco significa tolleranza reciproca), primo quartiere integrato fin dalle fondamenta. Insieme berlinesi e migranti, cristiani e musulmani, residenti e «ospiti» senza barriere di nessun genere. Sarà realizzato entro il 2018 ad Altglienicke, non lontano dall’aeroporto di Schönefeld: previsti 166 appartamenti con canone d’affitto di 6,5 euro al metro quadro.