I vialetti di case banali e ordinate sono quelli di Edward mani di forbice, moda e pettinature sono anni ’50, e l’eroina somiglia tantissimo a Doris Day. Tim Burton (Burbank, 1958) torna a casa in molti sensi con Big Eyes, un film che lo riporta ai luoghi e agli anni dove è nato/cresciuto, alla pittura che ha un ruolo così importante nel suo cinema, alle crepe dell’American Dream da cui sono sbucati molti dei suoi mostri, alla provocazione del kitsch tanto vitale nell’arte dei suoi film e a delle immagini che hanno visibilmente stregato la sua opera.

 
In cantiere da circa un decennio, il nuovo lavoro dell’autore di Mars Attacks, doveva in realtà essere diretto dai suoi sceneggiatori, Scott Alexander e Larry Karazewski, che per Burton avevano già scritto il magnifico Ed Wood e ai quali lui aveva promesso di produrre Big Eyes. Ma, dopo aver invano e a lungo cercato di metter insieme il budget, Alexander e Karazewski hanno deciso di cedergli il posto dietro alla macchina da presa -in effetti si tratta di un progetto che ha molto in comune con Ed Wood.

 
La storia del «peggior regista mai esistito» e quella dell’artista i cui quadri (nelle parole di John Canaday, sul New York Times) «per i critici sono sinonimo della definizione stessa di cattivo gusto» sono accomunate dal rifiuto dell’establishment, e dalla qualità ossessiva del gesto; con la differenza che Ed Wood morì marginale e in miseria, mentre Margaret Keane è diventata un fenomeno di massa. La sua è quindi almeno in un certo senso una storia con l’happy ending.

 

 
Secondo suo marito Walter (che nel film è interpretato con le verve enfatica di un prestigiatore da baraccone da Christoph Waltz) quel fenomeno non sarebbe mai esistito senza di lui, e soprattutto senza le sue indiscutibili doti promozionali. Big Eyes si presenta, in effetti, anche come il racconto di un sodalizio. Lasciatasi un primo marito inutile alle spalle, Margaret (Amy Adams, la più Fifties delle attrici americane contemporanee) arriva in una San Francisco dove già si annusa l’aria della rivoluzione culturale che prenderà possesso della città entro qualche anno. Mamma single decisa a intraprendere una carriera bohemienne, inizialmente anche lei sembra cavalcare un’onda di emancipazione femminista, che però si estingue al contatto con le arti manipolatorie di un collega «pittore di strada» che non vediamo mai dipingere, e che spaccia squarci e aneddoti di Parigi, città in cui (scopriremo poi) non è mai stato.

 
L’arte di Walter, in effetti, non sta sulla tela ma nel provvedere un mercato, e persino una giustificazione psicologica perfetta per il pubblico di massa (l’ispirazione arriva dagli orfani di guerra!), alla moltitudine di bambini con smisurati occhi tristi che dipinge sua moglie. Timida e poco interessata alla vita mondana nei caffè della città, quando scopre che Walter si spaccia per autore dei suoi quadri, Margaret è inorridita. Poi però accetta il patto con il diavolo: prezzo di un’esistenza di lusso e della possibilità di vivere dipingendo è l’invisibilità, che Margaret consuma, tra i fumi della trementina, dietro alla porta di uno studio cui nemmeno sua figlia ha accesso, e dove rivisita all’infinito quella che è sostanzialmente la stessa immagine.

 
Gli occhi di una persona sono l’ingresso alla sua anima – dice Margaret a Walter (che riciclerà la frase alla prima occasione). Ed è chiaro che gli spaventosi buchi neri che si spalancano sui volti dei bambini di «Keane» hanno avuto un grosso impatto sull’immaginario di Tim Burton. E che la struggente compulsività del gesto di Keane, insieme alla sua implausibilità artistica, lo affascinano come quello di Ed Wood. Quello che è meno chiaro – forse perché dopo tutto questa è una storia di (auto)repressione- è cosa Burton vede in quei buchi neri.
Cosa succede dietro alla porta dello studio di Margaret Keane, e dietro ai suoi grandi occhi blu, rimane un mistero. Il che fa di Big Eyes un bel film che però ti lascia con la voglia di qualcosa di più.