Se ne è andato la scorso 28 aprile Jack Ely, voce dei Kingsmen e del loro pezzo più noto, Louie Louie. Uno di quei brani che mettono in moto anima e corpo riconciliando con l’idea pura di rock’n’roll: tre accordi, quel riff/ritornello immortale e via. Poi a ognuno la sua pronuncia, il succo non cambia. Che sia «lùi, lùi», «luì, luai», «luì luì», «luai luai» o altre possibili combinazioni. Albuquerque, New Mexico. Anni fa chi scrive era in viaggio-vacanza negli Usa con un gruppo di amici.
Albuquerque è una striscia di case, classica periferia statunitense. In un pub illuminato a festa, una ragazzina sta festeggiando il compleanno. Tante le canzoni. Finché scorgiamo tra i titoli del juke box anche la Louie Louie dei Kingsmen, gruppo garage rock di Portland, Oregon che la pubblicò nel ’63 portandola al successo. La sinfonia nel pub cambia all’istante. In quel brano c’è come un’esca misteriosa, magica. Un riff e un ritornello con dentro un potere di coinvolgimento senza precedenti nella storia del rock. «Du-du-du, du-du, du-du-du». Già nel febbraio 1997 Ultrasuoni si era occupato di quella canzone; pochi giorni prima, il 23 gennaio, era scomparso a Los Angeles Richard Berry (nessuna parentela con Chuck), autore del pezzo e primo esecutore.
Ricordare l’artista era implicitamente anche un omaggio a uno dei brani più noti del rock: perché se (I Can’t Get no) Satisfaction dei Rolling Stones è il rock inglese, Louie Louie è il suo corrispettivo Usa. Non solo: fu anche il primo pezzo della storia ad essere messo sotto inchiesta dall’Fbi. Da allora la canzone continua a sostare nel repertorio di centinaia di band e a trasformare radicalmente il contesto in cui viene suonata. Di più: la morte di entrambi gli artisti la consegna definitivamente a tutti, ognuno – esecutore e ascoltatore – appropriandosene alla sua maniera.

I Kingsmen la incisero in meno di due ore pagando 50 dollari per lo studio. Vendettero 8 milioni di copie. Il pezzo non era loro e ci volle un po’ per accorgersene. Si trovava sul lato b di You Are My Sunshine, una canzone dei Pharaohs, tra i tanti gruppi di Richard Berry, vocalist nero, noto in ambito doo-wop e r&b, voce guida dei Robins (nella famosa Riot in Cell Block no. 9). Negli anni ’50 Berry suonava regolarmente all’Harmony Park Ballroom di Anaheim, California. Al tempo il suo gruppo erano i Rhythm Rockers, band messicana scelta dal locale per intrattenere il pubblico della domenica.

Non era un riff originale quello che venne in mente a Berry. Piuttosto era l’inizio di un altro classico, El loco cha-cha di Rene Touzet, che all’inizio sfoggiava il classico «du-du-du, du-du, du-du- du» e poi cambiava strada. Estorcergli quel frammento e costruirci sopra una canzone non avrebbe causato problemi legali, nessuno se ne sarebbe accorto. Abbinato (lato b) alla canzone country di cui sopra Berry incise Louie Louie nel 1957 per la Flip records facendosi accompagnare da un’altra band, i Pharaohs. Per tre mesi le radio locali californiane suonarono You Are My Sunshine e poi successe il miracolo. Hunter Hancock, il dj di una stazione r&b di Los Angeles, trasmise Louie Louie e da quel momento cambiò la storia del rock. Non ebbe successo la versione di Berry e solo con l’avvento dei Kingsmen divenne un hit memorabile. Il fatto che il gruppo fosse bianco contribuì in maniera non indifferente a farlo decollare.

Nella fondamentale monografia Louie Louie del critico Dave Marsh si fa menzione del fatto che il pezzo sia stato inciso almeno 1200 volte e in ogni stile. Dice Marsh: «È la canzone più bella della storia, è la più brutta. È una rock’n’roll song, un pezzo calypso, un brano da marinai, disgustosa, sporca, oscena; in sé concentra la storia del rock’n’roll». Ricorda Berry: «La gente mi diceva, ’Stai diventando ricco’ e restavano sorpresi dal fatto che girassi con una macchina ridicola. Ma come è avvenuto con tanti altri artisti anch’io ho venduto i diritti per pochi spiccioli. Non è stato facile recuperare tutti i milioni in royalties maturati nel tempo».

Berry aveva ceduto i diritti del pezzo per poche centinaia di dollari. Gli servivano per pagarsi l’organizzazione del matrimonio e in particolare il banchetto nuziale. Venticinque anni dopo ancora tentava di recupare quei diritti dannandosi come un matto per sbarcare il lunario, vivendo di sussidi di disoccupazione e infine rimettendosi a studiare negli anni ’80 per conquistare un diploma d’informatica.

Poi nel 1985 ce la fa, vincendo la battaglia legale di un’intera vita. I diritti tornavano a lui. Si rimise sulla strada suonando il pezzo a più non posso e anche gli altri composti per nomi illustri come Etta James o i Coasters

Dimenticato

Nel ’59 Louie Louie è un brano dimenticato, morto e sepolto. Nel ’61 Rockin’ Robin Roberts, rocker scatenato di Seattle, la scopre in una vaschetta di offerte e svendite di un negozio e se ne appropria. La versione che inciderà nel 1961 con i Wailers, storico gruppo garage rock di Tacoma, Washington, è la prima spinta verso la gloria, sebbene fosse riuscito a imporsi solo a livello locale. Non solo; il brano si conclude con un verso che farà storia: «Let’s give it to ’em right now», ’diamoglielo adesso’, e parte un ultimo, lancinante assolo di chitarra. E qui entrano in scena i Kinsgmen che conoscevano bene la versione dei Wailers. I due elementi portanti dei Kingsmen, Jack Ely alla voce/chitarra e Lynn Easton, batterista, si erano incontrati a Portland, Oregon mentre capitanavano i rispettivi complessini della scuola.

Fu la madre di Lynn a contattare Ely quando il chitarrista dei Journal Juniors, la band del figlio, decise di non presentarsi a un concerto. I due avevano inizialmente pensato di intraprendere una carriera come duo e così fu per diverso tempo. Poi, nel ’58, l’arrivo di Mike Mitchell, chitarrista solista e di Bob Nordby, bassista. Esisteva già un gruppo a Portland chiamato Kingsmen. Quando si sciolse i genitori di Lynn si incontrarono con il leader della formazione e lo convinsero a cedere il nome al figlio. Che famiglia.

Nei quattro anni successivi i nuovi Kingsmen si fecero le ossa suonando una miscela di rock e r&b e rieseguendo molti strumentali dell’epoca sullo stile dei Ventures. Nel ’62 avevano esordito su 45 giri con Peter Gunn Rock, rielaborazione del classico di Henry Mancini. Un passo decisivo fu l’arrivo di Don Gallucci, quinto componente, all’organo. Una sera, mentre suonavano in un club, sentirono Louie Louie eseguita dai Wailers. Fu un’illuminazione. I Kingsmen la incisero inizialmente nel maggio ’63 su Jerden. E anche questo fu un successo solo regionale. Nel frattempo si era scatenato il caos all’interno del gruppo. Easton voleva passare al sax e alla voce; ovviamente Ely si oppose e fu costretto a lasciare la band. Intanto il pezzo cresceva e i soldi arrivavano alla Wand che lo aveva rilevato dalla Jerden e pubblicato a ottobre dello stesso anno. Il 2 novembre si trovava al 127esimo posto. Dal 7 dicembre del ’63 al gennaio del ’64 passò dal 23esimo al quarto posto per arrivare al secondo. Secondo le classifiche di Billboard non arrivò mai al primo mentre la rivista rivale, Cash Box, gli conferì il primato.

Di persona

Nel frattempo i Kingsmen senza Ely pubblicarono l’album di debutto: The Kingsmen in Person, classico live non live, con sovraincisioni di urla e applausi. È indubbio che su quel disco sia la voce di Jack Ely a comparire nella versione di Louie Louie. Nessuno avrebbe potuto eguagliare la potenza della registrazione originaria. Intanto Ely aveva formato i Jack Ely and The Kingsmen ma un tribunale gli vietò di usare il nome del primo gruppo. In compenso fu stabilito che da lì in poi in ogni versione di Louie Louie pubblicata a nome Kingsmen avrebbe dovuto figurare la voce di Ely.

La notizia della scomparsa del cantante è stata diffusa dal figlio Sean che non ha specificato le cause della morte: «Aveva convinzioni religiose che lo rendevano molto riservato, nemmeno noi in famiglia sappiamo di cosa soffrisse». Secondo Sean, Ely raccontava che in origine il pezzo doveva essere solo strumentale e che alla fine aveva deciso di cantarlo. «Mio padre ricorda – continua Sean – che fu inciso in una stanza minuscola, e che c’era un solo microfono. Lui se ne stava in punta di piedi e continuava a strillare ’Louie Louie! Louie Louie! We gotta go!’». E proprio da questa incisione scaturisce il grande fascino e mistero che avvolge il pezzo. Galeotti furono il microfono (penzolante dal soffitto e piazzato troppo in alto), la postura (ergersi e sporgersi il più possibile), la posizione (Ely in mezzo al resto della band), la voce (gridare per farsi sentire, tanto erano forti i volumi di chitarra e batteria).

Ma non solo. Si racconta che Jack Ely avesse una fortissima irritazione della laringe provocata la sera prima dell’incisione da una session live interminabile. Con il gruppo aveva cantato in un club per novanta minuti di seguito la stessa canzone, sempre Louie Louie. Per tutte queste ragioni le parole divennero così incomprensibili e ingarbugliate aprendo immaginari senza ritorno. Cosa diceva quel testo? Che fosse stato un turpiloquio? Erano frasi oscene? Cosa stava cantando realmente Ely?
Il fatto che il brano si impose nel ’63 come la canzone preferita dei college di mezza America e che a ogni festa adolescenziale fosse il pezzo di apertura e chiusura di ogni party scatenò illazioni su illazioni. Corsero voci che Jack Ely non stava cantando la storia di un marinaio costretto a star lontano dalla sua bella ma una poesia ad alto contenuto pornografico. Addirittura si pensò che ascoltando la canzone a 33 giri (come successe negli anni Ottanta con satana, heavy metal, messagi subliminali) il mistero si sarebbe risolto. Macché.

John Edgar Hoover e il Federal Bureau of Investigations, l’Fbi, si intestardirono e per 30 mesi (leggi trenta) misero sotto inchiesta il pezzo. Non si sa quante volte il disco fu ascoltato e a quante diverse velocità fu suonato. Alla fine il verdetto dell’Fbi fu secco e perentorio: «A qualsiasi velocità il brano risulta indecifrabile». Caso archiviato.

Il libro di Marsh in tal senso è emblematico e ripercorre con dovizia di particolari la caccia alle streghe suscitata dal brano. Anzi Louie Louie fu – come già ricordato – in assoluto il primo pezzo rock messo sotto inchiesta dall’Fbi. Secondo gli agenti federali quei due minuti e 13 secondi di registrazione erano semplicemente osceni e pornografici. E andavano indagati. Altro che la storia del marinaio giamaicano tanto triste che interloquisce amichevolmente con un barman, Louie, a cui racconta che la sua ragazza è rimasta in Giamaica, che lui vorrebbe tornare sull’isola e che alla fine si congeda perché «I really got to go».

L’ora di Christy

La figlia di Berry, Christy, ricorda che ogni volta che i fan le chiedono il significato profondo di quel testo lei scoppia a ridere e replica: «Se anche vi dicessi le parole non ci credereste comunque». Replicava Berry nelle interviste: «Fu messa fuori legge in alcuni stati e in molte città per via dell’interpretazione che se ne diede. Ricevetti visite e telefonate da parte dell’Fbi e mi fecero vedere un fascicolo pieno di lamentele; gli dissi che la mia Louie Louie era assolutamente pulita. Quando i Kingsmen incisero la loro versione la pronuncia era talmente sporca che la gente si mise a dire, ’Dio, senti che stanno dicendo’». Domanda: possibile che quel testo non si capisca? E soprattutto: esiste un testo a cui fare riferimento? Sicuramente è quello di Richard Berry ma anche l’originale si è perso nel mito, al punto che forse esistono tanti originali ed è praticamente impossibile risalire a un brano iniziale.

Ovviamente c’è la prima incisione di Berry ma anche in questo caso la trascrizione a orecchio non può essere precisa. Perché l’artista cantava nel «pidgin english» del calypso utilizzando vocali eufoniche che dessero maggiore agilità al testo e conferissero musicalità ai versi. Insomma non tutto si capisce. Nell’introduzione al libro Louie Louie, lo stesso Dave Marsh spiega che in 245 pagine di testo non figura mai una versione originaria e che la Warner/Chappell, divisione della Time Warner, proprietaria della canzone, non gli ha mai risposto e fornito alcun testo.

Sempre Marsh sostiene che né la versione di Berry né quella dei Kingsmen contennero mai alcun riferimento porno-erotico. Piuttosto tutto scaturì da un atto di profonda goliardia degli studenti di Portland, Seattle e altri college del Pacific Northwest. Lo confermò nell’86 lo stesso Richard Berry intervistato dal quotidiano News di Indianapolis. Diceva che tra i ragazzi si scatenò una gara a trascrivere il testo «vero». Tutti osceni. Tutti analizzati dall’Fbi che cascò in pieno nel grande tranello dell’ironia. Replica il figlio di Ely: «Qualsiasi cosa si possa pensare, mio padre sapeva cosa cantava e di certo non erano cose volgari». Paradossalmente proprio Jack Ely non fu mai interpellato dall’Fbi. Dal canto suo era convinto che intelligibilità del testo dipendesse dalla posizione del microfono e dalle condizioni in cui il brano fu inciso. Si divertiva a ricordare quelle 455 pagine di indagini che avevano accompagnato la sua registrazione. Ma ormai erano cose perse nel tempo. Da anni allevava cavalli, aveva mollato con la musica e si accontentava di quel magico status di one-hit wonder (un succeso e basta) che di certo non tocca a tutti e quasi mai con questa potenza. Spesso alla radio sentiva una delle tante versioni di Louie Louie in circolazione. Molte stanno nella ridda di compilation tematiche dedicate al brano (storici i due volumi, The Best of, della Rhino), altre si ascoltano nelle tante maratone (radio, festival, eventi vari) costantemente dedicate al pezzo ogni 11 di aprile, data di pubblicazione dell’originale di Berry.

Quello è l’«International Louie Louie Day».

Il primo omaggio e il più noto – il «Maximum Louie Louie» – risale però al 19 agosto 1983. Allora la stazione radio californiana Kfjc suonò 823 versioni in 63 ore. Proprio in quell’occasione, a Los Angeles, Berry e Ely si incontrarono per la prima volta. Da notare che in molte raccolte non compare l’originale di Berry che citando a caso si trova ad esempio in Louie Louie (Earth Angel), compilation pubblicata in Svezia e su Born Bad vol. 4 (Born Bad Records).
Tra i nomi che hanno rieseguito il pezzo Julie London, Mongo Santamaria, Kinks, Ike & Tina Turner, Barry White, Beach Boys. C’è una versione reggae di Toots & The Maytals, quella fusion di George Duke, quella ultrahardcorepunk dei Black Flag, quella di John Belushi nel film Animal House. I Blondie ne registrarono una dal vivo a Londra nel ’79.

E ancora i Cult, i rapper Fat Boys, i Falcons, i Flaming Groovies, gli avanguardisti Half Japanese, i Girl Trouble, Iggy & The Stooges su Metallic Ko e Iggy Pop da solo; e ancora gli MC5, i Pretenders, Otis Redding, band di college, bande militari, orchestre e gruppi middle of the road come i Sandpipers. E ancora i beat italiani Trappers (Lui, lui non ha), i mitici Sonics e Patti Smith. Impossibile non ricordare il pezzo di Maureen Tucker (la batterista dei Velvet Underground) su Playing Possum e il Frank Zappa di Uncle Meat. Secondo Marsh echi di Louie Louie spuntano qui e là in tantissimi brani. Da Remote Control dei Clash, a Submission e Bodies dei Sex Pistols. Ma Louie Louie non si descrive, si sente e basta.

Perché: «Du-du-du, du-du, du-du-du/Louie Louie me gotta go/Fine little girl away from me/Me catch the ship across the sea».