Nella chiacchierata intervista, pubblicata in Italia da  Repubblica, in cui comunicava la sua decisione di smettere di scrivere e riconosceva quasi controvoglia di non aver invece abbandonato l’abitudine di leggere almeno due ore ogni sera, Philip Roth dichiarava: «Ho appena finito uno stupendo libro di Louise Erdrich, The Round House». E la frase di Roth, trasformata in «strillo» e ridotta a un semplice «stupendo», campeggia ora sulla quarta di copertina dell’edizione italiana del romanzo di Erdrich, La casa tonda (traduzione di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli) mentre le alette interne si concentrano soprattutto sul conferimento del prestigioso National Book Award, contro tre «mostri sacri» della giovane narrativa americana (Dave Eggers, Junot Diaz, Kevin Powers) e dopo che un libro precedente di Erdrich, ambientato nella stessa riserva indiana del North Dakota che compare nelle pagine della Casa tonda (The Plague of Doves, inedito da noi), era stato finalista del Premio Pulitzer.
A poco meno di sessant’anni di età e con tredici romanzi alle spalle (ma anche poesie, libri per ragazzi, un memoir e diverse raccolte di saggi), Louise Erdrich è non solo la più importante e nota scrittrice native american sulla scena, ma anche, tout court, una delle voci più solide e importanti del romanzo americano contemporaneo. Fin dal suo fulminante esordio con Medicina d’amore, che risale ormai a quasi trent’anni fa, ha saputo trasformare la regione natia del North Dakota e le doppie radici della sua famiglia (native americane e tedesche) in un serbatoio di storie, un universo narrativo compatto e sfaccettato, degno di stare a fianco della contea di Yoknapatawpha di Faulkner o della Macondo di Marquez.

Il rapporto di filiazione da Faulkner è particolarmente evidente ed è stato più volte sottolineato dalla critica. Nei precedenti romanzi di Erdrich, oltre che nell’invenzione di un luogo – una riserva indiana insieme reale e simbolica, in grado di farsi mondo e di accogliere dentro i propri confini un’infinita proliferazione di storie – quella filiazione si manifestava anche nelle scelte strutturali, dalla frammentazione della trama, del punto di vista, delle voci narranti al rifiuto di qualunque facile coerenza cronologica. Il lettore, chiamato a immergersi in un universo del quale gli erano ignoti molti dati e coordinate, veniva costretto a un approccio partecipativo, ricostruttivo, interpretativo. Un’impresa certo non ignota a chiunque si sia formato sul romanzo modernista, ma che nel contesto della narrativa contemporanea, dominata, con le dovute eccezioni, dal ritorno a una trama di stampo più lineare, ha portato a considerare Erdrich una scrittrice «difficile», e per pochi lettori.
Senza tradire le tematiche care all’autrice e la sua arte mitopoietica, La casa tonda rappresenta per più versi un punto di svolta. Erdrich – con l’eccezione di poche e ben individuate digressioni narrative – rinuncia tanto alla frammentazione cronologica quanto alle continue variazioni del punto di vista. Si affida per intero a un’unica voce narrante, quella del tredicenne Joe, e pone al centro della trama un episodio da crime novel. All’inizio del romanzo la madre del protagonista, Geraldine, specialista in materia di iscrizioni tribali, viene aggredita e stuprata in circostanze misteriose e con particolare efferatezza. Sul crimine indagano, tra mille conflitti di competenze, tanto la polizia della riserva quanto quella statale, e perfino l’Fbi; soprattutto, indaga il marito di Geraldine, Bazil Coutts, giudice della riserva, tormentato dalla profonda depressione in cui sua moglie è piombata e dal rifiuto ostinato della donna a contribuire alla ricerca del colpevole. Ma ancora più a fondo indaga, e in prima persona, lo stesso Joe, soprannominato da tutti Oops perché nato quando nessuno ormai se lo aspettava. Ad aiutarlo, i suoi tre amici d’infanzia: Cappy, Zack e Angus.
La presenza di un crimine e la fusione tra giallo, temi sociali – come sottolinea la stessa Erdrich nella postfazione al libro, «il garbuglio di leggi che ostacolano l’esercizio dell’azione penale nei casi di stupro in molte riserve esiste ancora» – e racconto di formazione, hanno indotto molti recensori a accostare La casa tonda a Il buio oltre la siepe. Il paragone è legittimo ma al tempo stesso fuorviante, e a fare la differenza è prima di tutto il protagonista, la cui furia adolescenziale e il cui desiderio di scoprire e punire l’aggressore della madre sono raccontati con un’onestà non scevra da sgradevolezze. Gli scontri di Joe con il padre, che tenta di proteggerlo dalla verità, e con gli altri parenti; l’amore rabbioso e disperato per la madre; la progressiva scoperta della sessualità, concentrata nel rapporto con la zia acquisita Sonja, ex ballerina, irrequieta e predatrice; la ricerca di consolazione e certezza nell’amore per i propri compagni e per il nonno quasi centenario, insieme deliziosamente folle e portatore di un’antica saggezza: tutto è evocato con una verità, una precisione di toni, una durezza che, nel capolavoro di Harper Lee, erano addolcite o almeno controbilanciate dall’impianto favolistico e nostalgico del racconto.

Altrettanto fuorviante – per quanto le coordinate di genere siano sostanzialmente rispettate – è la definizione di «giallo». Se si riducesse alla storia di uno stupro e delle indagini che seguono, o a un semplice romanzo di formazione con trama poliziesca, La casa tonda non sarebbe il romanzo totale che è. Soprattutto, non sarebbe un «romanzo mondo», in linea con l’intera produzione di Erdrich, della quale rappresenta a tutt’oggi la sintesi più accessibile e appassionante. Intorno alla trama gialla, ma spesso anche indipendentemente da essa, si affolla una straordinaria galleria di personaggi, tratteggiati con infallibile penetrazione psicologica e con una tavolozza ricca e completa, che sa toccare tutte le corde del sentire, dalla comicità più grossolana e sboccata alla tragedia. Oltre alla zia Sonja e al nonno Mooshum, magnifico è il ritratto del padre, curvo dentro la sua sconfitta e dentro l’inutilità di una giustizia che pure ha amministrato per anni e alla quale ha dedicato la sua intera esistenza; o quello dell’amico del cuore di Joe, Cappy, incauto, generoso, impulsivo; o ancora quello di Travis, il nuovo parroco della tribù, con il suo passato nei marines, il corpo e l’anima coperti di cicatrici.

Attraverso questa folla di personaggi, nessuno dei quali ridotto al ruolo di semplice figurante o funzione narrativa, Erdrich mette in scena un mondo (il romanzo è ambientato nel 1988, e il faccione del Presidente Reagan campeggia negli uffici pubblici della riserva) sospeso tra tradizione e modernità, tribalismo e cattolicesimo, spiritismo e materialismo. Racconta la resistenza al cambiamento, le strategie messe in atto per difendere uno status quo ormai degradato e destinato alla cancellazione, ma anche le potenzialità del nuovo che incombe, e di un non impossibile, pacificato incontro tra culture e visioni dell’esistenza. E realizza tutto ciò con perfetta padronanza dei tempi narrativi (tra pause, digressioni, accelerazioni improvvise) e una lingua di magistrale duttilità, resa con la consueta, assoluta padronanza da Vincenzo Mantovani. La sua traduzione, che come sempre sa mettersi al servizio del libro senza vezzi o concessioni al gusto personale e partendo da una conoscenza profonda dell’autrice e delle sue tematiche, rappresenta un ulteriore valore aggiunto, e contribuisce a rendere La casa tonda un romanzo imperdibile.