Una nuova, ennesima rinascita del western si sta consumando nella produzione culturale dei giorni nostri, in grado di rimbalzare da un linguaggio all’altro, ibridando e moltiplicando le possibilità di scrittura, di messa in scena, di rilettura della Storia e delle storie.
Osservandola si potrebbe anche azzardare una valenza egemone per questo genere che o fagocita o semplicemente non è, si eclissa, salvo poi riemergere con prepotenza come sta avvenendo di questi tempo. Un destino gramsciano si potrebbe dire a volerci riflettere appena un po’ più sopra, al di là di tutti gli usi e consumi politici che ne sono stati fatti nel corso del tempo.
In Italia come sempre da qualche decennio a questa parte di queste evoluzioni arrivano appena appena gli strascichi, ovvero qualche film americano e qualche libro, come il bellissimo Warlock meritoriamente pubblicato da Sur.
Ma al centro di questa rinascita che è un po’ anche una rivincita, ci sono forma espressive nuove o emergenti, le serie tv, come Westworld, o il fumetto. Basta infatti valicare le Alpi per osservare che la prestigiosa rivista letteraria «Lire» dedica un numero monografico al principe del fumetto western in salsa europea, ovvero Lucky Luke.
Aspettando che i tanti guru che si aggirano su quel che resta delle pagine culturali dei nostri quotidiani o su qualche altro canale, (blog? Riviste? già ma quali?), si accorgano di quanto sta succedendo e si apprestino ad analizzarlo con la dovuta attenzione ci si può regalare qualche ora di autentico divertimento con la lettura delle prime tavole di Lucky Luke, pubblicate da Nona Arte (L’intergale, Euro 29,90) in una edizione veramente interessante, accompagnata da una bella introduzione sul suo creatore Morris e sul mondo del cowboy «fortunato».
La prima avventura, pubblicata il 10 ottobre 1946, è ambientata nel 1880, in Arizona e Lucky Luke si trova ad aver a che fare con una banda di malviventi che assieme a Jolly Jumper riesce a sgominare. Siamo nell’ambito di una comicità prettamente visiva, le strisce sono piene di quelle gag che negli anni del cinema muto fecero la fortuna della prima grande generazione di comici americani, Sennett, Keaton, ecc.
C’è un’atmosfera di scoperta, di meraviglia che accompagna il lettore in queste avventure degli inizi. È come se Morris venisse anch’egli scoprendo assieme ai lettori il mondo che stava costruendo, con i suoi banditi da quattro soldi, gli animali parlanti, i cactus che si rivelano provvidenziale risorse per incastrare i lestofanti di turno.
Maurice De Bévère, questo era il suo vero nome, era nato a Courtroi, nelle Fiandre, il 1 dicembre 1923. Da bambino era cresciuto leggendo le gesta di Tom Mix e giocando con i cavalli di legno che gli venivano regalati.
«Quando ero giovane volevo vivere come un cowboy. Non è il sogno di qualsiasi ragazzo? Devo essere stato segnato dal numero di cavalli che ha costellato la mia infanzia. Me ne hanno regalati una quantità pazzesca. Da allora ho sempre avuto la passione dei cavalli. Tuttavia nei circoli di equitazione s’incontrano troppi snob. Forse un giorno comprerò un cavallo. Posso vivere come un cowboy soltanto stando in sella».
Ed effetivamente tutta la sua percezione del vecchio e selvaggio west sembra essere equina più che umana.
Poi c’è il discorso sulle influenze e anche qui Morris rivela cose molto interessanti: «In Lucky Luke c’è Tom Mix ai tempi del Muto, John Wayne, un po’ di James Stewart e di tutti i cowboy taciturni. Ma l’attore che mi ha influenzato maggiormente è stato Gary Cooper, in particolare per il fatto che parlava molto poco e rispondeva essenzialmente con Yeah. La timidezza di Lucky Luke con le donne deriva da lui. Gary Cooper incarnata alla perfezione l’eroe tipico del western di una certa epoca, alto slanciato, un po’ dinoccolato, solitario… Lucky Luke ne è ispirato parecchio anche per quanto riguarda il costume, ma senza esserne direttamente la caricatura. Luke non è la caricatura di un tipo particolare, ma piuttosto la sintesi di tutti questi eroi».
Come Leone, come Karl May, anche il selvaggio West creato da Morris è un’operazione sincretica, in cui confluiscono tante diverse declinazioni, anche divergenti loro, facendone inevitabilmente un prodotto pieno di ironia, una parodia. Qualcuno potrebbe perfino arrivare a dire che si tratta di anticipazioni del postmoderno. Si tratta in realtà di qualcosa di molto meno freddo, piuttosto del succo di anni e anni di letture reinventate da un’immaginazione sovrabbondante che d’altra parte doveva colmare la mancanza di una visione diretta, dal vivo, di quel mondo. O almeno di qualche reperto sotto forma di racconto orale.
In queste prime strisce ci sono tutti i temi classici, il rodeo, l’incontro con gli indiani, i saloon, i manigoldi. Imperdibile è l’episodio della Corsa all’oro a Cold Creek, nel quale Luke si trova a dover dissuadere gli indiavolati avventurieri da un febbrile assalto a una postazione in cui in realtà non c’era niente, se non un dente sganciatosi da un teschio.
Il tratto che delinea Luke segue questa cifra calda, gioviale, spensierata, è tondeggiante, con tinte nette, poi nel corso degli anni la figura del cowboy solitario si allungherà, diventerà più sorniona anche in questo caso seguendo una declinazione diversa del suo carattere e delle sue avventure, basate su un’ironia tagliente, su situazioni al limite del surreale.
Anche Luke, il cowboy solitario, ha vissuto molte vite, ora sono addirittura grandi scrittori come Daniel Pennac a scrivere storie sul suo conto (sempre meritoriamente pubblicate da Nona arte), come in Lucky Luke contro Pinkerton, o Lucky Luke e la terra promessa.
Il vecchio West continua ad essere il ricettacolo e forse anche un luogo accogliente per i nostri sogni e le nostre bizzarre distorsioni, della storia e della realtà.