Il «contro-golpe» messo in atto dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan preoccupa l’Unione europea. Gli oltre seimila soldati arrestati insieme a più di 750 giudici, i poliziotti in manette, le immagini dei ribelli stesi a terra seminudi e con le mani legate dietro la schiena, ma soprattutto la minaccia che Ankara possa reintrodurre la pena di morte dodici anni dopo averla abolita sono notizie che sconvolgono le istituzioni europee costringendole a intimare un secco altolà a chi fino a ieri veniva considerato – magari solo per convenienza – come un partner fidato. «Nelle prime ore dopo il fallito colpo di stato abbiamo assistito a scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta», commenta da Berlino la cancelliera Angela Merkel mentre da Bruxelles cominciano ad allinearsi prese di distanza sempre più nette. «Nessun paese che adotti la pena di morte può far parte dell’Unione europea», è il parere comune espresso dai ministri degli Esteri dei 28 riuniti nella capitale belga. Per ora – aggiunge Federica Mogherini, – l’Unione europea considera ancora la Turchia un partner e guarda a quanto accaduto «con atteggiamento amichevole», ma non è detto che sarà così per sempre. In futuro, sottolinea infatti la rappresentante della politica estera europea, «potrebbe servire una nuova riflessione strategica» sui rapporti tra Bruxelles e Ankara. Parole che inducono il premier turco Binali Yildirim a una momentanea frenata. Quella di applicare la pena di morte, dice, è una «richiesta del popolo, un ordine dei cittadini», ma sarebbe «sbagliato affrettarsi a decidere».

Del resto, parlando in piazza ai suoi sostenitori nelle ore successive il fallito golpe, Erdogan l’aveva promesso: «Faremo pulizia nelle istituzioni», ed è quello che sta accadendo. Le conseguenze del pugno duro messo in atto precipitano su un vertice dei ministri degli Esteri che in agenda aveva tutti altri argomenti: il rapporto con la Cina, l’immigrazione e la lotta al terrorismo, punto quest’ultimo chiesto dalla Francia dopo l’attentato di Nizza. Questioni alle quali si è immediatamente aggiunta la necessità di fare il punto su quanto sta accadendo in Turchia.

Per Bruxelles non si tratta però di una questione facile da risolvere, visto che quanto accadrà nelle prossime ore potrebbe avere ripercussioni importanti anche per l’Unione. Se da una parte infatti c’è la volontà di mantenere fermo il rispetto dello stato di diritto – e quindi dei propri valori – dall’altra è anche vero che da Erdogan – il «signore dei flussi migratori europei», come l’ha definito ieri la Frankfurter Allgemeine Zeitung – dipende la ripresa o meno di quella crisi dei rifugiati che ha messo a dura prova la tenuta stessa dell’Ue e risolta con l’accordo siglato con Ankara nel marzo scorso. Non a caso ieri il portavoce della Commissione Ue, Margaritis Schinas, ha voluto precisare come per Bruxelles quell’intesa non sia a rischio: «Noi continuiamo a rispettare integralmente l’accordo e ci attendiamo che la Turchia faccia altrettanto», ha detto mostrando così le paure dell’Europa.

Paure che in queste ore è possibile vedere anche nelle reazioni di alcuni paesi. Come la Bulgaria, che ieri ha inviato altri 230 soldati a presidiare il confine con la Turchia proprio per il timore che il caos che sta vivendo la Turchia porti i profughi siriani presenti nel paese spostarsi in direzione della sua frontiera. O come la Macedonia, il cui governo si è riunito in seduta straordinari per valutare quali misure adottare nel caso dalla Grecia dovesse ricominciare il flusso di profughi visto nel 2015. Reazioni esagerate, isterismi probabilmente, che però segnalano chiaramente quali siano gli stati d’animo che in queste ore attraversano il Vecchio Continente.