«Sono pazzo di quell’uomo. Luigi Lo Cascio è preciso, ha una mente logica, giusta per me e per interpretare Hinkfuss. Mi è sembrato di aver pensato sempre a lui per la parte». Senza fronzoli, diretto e schietto, Federico Tiezzi, reduce dall’applauditissima prima al Piccolo Teatro Grassi di Milano di Questa sera si recita a soggetto, il suo nuovo Pirandello, dopo I giganti della montagna e Non si sa come, ricorda come la scelta del protagonista sia caduta con estrema facilità sull’attore siciliano: «Ho conosciuto Luigi trent’anni fa, forse di più, al Teatro Biondo di Palermo. In Aspettando Godot aveva una piccolissima parte, quella del ragazzo che porta l’annuncio dell’imminente arrivo di Godot, che si sa non arriverà mai. Era un giovane bellissimo, molto vivo, m’impressionò la sua sicurezza, la sua meticolosità e precisione. Anni dopo, ho pensato: mi piacerebbe lavorare con lui, è così è stato, per fortuna». Pur stretto tra moltissimi impegni, diviso tra teatro e opera lirica, tra una Norma appena passata a Trieste e la ripresa della Vedova allegra al San Carlo di Napoli, la preparazione per il prossimo mese di Aprile del Calderón di Pasolini, prodotto dal Teatro di Roma e preceduto il 18 febbraio dal concerto a 5 voci sempre su testi del poeta friulano per l’Accademia Filarmonica Romana e ancora per la primavera il varo del nuovo allestimento al Teatro alla Scala del Simon Boccanegra di Verdi con un «mammasantissima» come Placido Domingo, il regista fiorentino si lascia andare ad una conversazione «senza rete» nella quale di volta in volta vengono affrontati problemi e questioni che un testo come Questa sera si recita a soggetto sembra sollevare e mettere in evidenza nel teatro e nello spettacolo di ieri come di oggi.
Nell’esaustivo libretto di sala vi è una di quelle notizie ritenute erroneamente dimenticate. Richiami alla memoria una conversazione a proposito di «Questa sera» con Judith Malina. Pochi, infatti, rammentano che uno dei primi spettacoli del Living Theatre è stato proprio «Questa sera si recita a soggetto!». Di cosa parlaste?
Avvenne durante un’edizione del Festival di Sant’Arcangelo, lì fu che parlai a lungo con Judith Malina. Ci scambiammo numerose riflessioni sul teatro, parlammo di tutto. Io ero e sono un ammiratore del Living Theatre. L’elemento di connessione tra un teatro molto libero, non tradizionale, non classico né imperniato sulla tragedia greca, fu Franco Quadri che mise in contatto noi giovani, provenienti da gruppi diversi non solo con il Living, ma anche con Grotowski e Bob Wilson, con il quale ho collaborato in due spettacoli. Fra le cose di cui parlammo ci fu anche Questa sera, il tema era naturalmente «il teatro nel teatro»; mi raccontò anche di Many Loves, Molti amori, di Wiliam Carlos Williams, altro testo messo in scena dal primo Living, che a suo avviso conteneva altre questioni cruciali sui modi di fare teatro in futuro. Quei suoi pensieri rimasero dentro di me per molto tempo, fin quando esplosero fuori nel 2007, mentre m’apprestavo a realizzare I giganti della montagna.
Iniziare dall’ultimo Pirandello, l’indagatore del mito, lo scardinatore di tutti i meccanismi del teatro borghese e del teatro stesso e già proiettato verso un futuro che non vedrà, non deve essere stato semplice.
Dovrei dire di sì. Come non avrei mai pensato di lavorare su Pirandello e la sua «modernità», che non sopportavo. I miei autori sono Cechov, Brecht, Pasolini …
e Testori …
Sì, Testori che ho più volte allestito, anche se è più testoriano il mio compagno Sandro Lombardi. E comunque mai avrei pensato di occuparmi di Pirandello. E Testori, in particolare l’Arialda mi ha risolto un problema non da poco. Nella scena della colluttazione in casa tra Mommina, la figlia talentuosa che rinuncia a cantare per la gelosia del marito Verri. Lì, rappresentazione massima di quella «stanza della tortura» come diceva Giovanni Macchia in cui la fisicità deve essere a parlare, il corpo più di ogni altra cosa. Non funzionava e non riuscivo a venirne a capo.
Interessante. Il vestito come cucitura drammaturgica sembrava un prelievo dannunziano, dalla «Fiaccola sotto il moggio», melodramma mascherato nei generi …
… fino a quando il vestito di Rina Morelli indossato nell’Arialda mi è venuto in aiuto. Sandra Toffolatti, l’attrice che interpreta Mommina, con la sua sensibilità mesmerica, è riuscita a dare al personaggio quel delirio aggrovigliato, baconiano, tra vittima e carnefice, essenziale nel teatro pirandelliano.
Ci sono molte versioni di «Questa sera», ne esistono alcune televisive tra cui quella realizzata da Guido Salvini, sul finire degli anni cinquanta, con Marcello Moretti, l’Arlecchino di Strehler. Salvini fu anche il regista della prima italiana ed era anche uno dei principali collaboratori del Teatro d’Arte di Pirandello. O ancora una, all’altezza del ’68, di Paolo Giuranna con Tino Carraro. Il mezzo televisivo, pur con i limiti del tempo, si rivelava molto adatto al testo. Con quali regie hai avuto modo di confrontarti?
Ritengo Questa sera un testo che si presta a molteplici chiavi di lettura, per certi versi è infinito, di una densità assoluta, che dà continue illuminazioni. D’altronde, Pirandello con Questa sera discute di regia, di attori, di scena e di pubblico.
Un pubblico che peraltro interviene con schiamazzi e richieste …
Ho detto che il mio è un pubblico dei «centri sociali», quello che si affaccia sulla balaustra e contesta il regista chiedendo a piena voce «vogliamo la poesia». Vuole dire con la sua protesta basta a filosofie fumose.
Hai detto che alcune regie ti hanno dato delle illuminazioni sul come andava lavorato il testo
Sì, me le ha date la regia di Ronconi all’Argentina. E ho visto nel corso degli anni anche le regie di Giuseppe Patroni Griffi con Sebastiano Lo Monaco e di Massimo Castri. Intraprendere un percorso d’avvicinamento a Questa sera si recita a soggetto vuol dire mettersi nelle condizioni di avere un coinvolgimento nel testo fatale. D’altronde non va dimenticato che Pirandello rappresenta la rottura di molte convenzioni teatrali. È lui che sfonda la quarta parete e giunge ad elaborare con I sei personaggi e l’intera Trilogia del teatro molte delle invenzioni con cui, moltissimi anni dopo, sia io che altri come Leo De Bernardinis, Martone, Barberio Corsetti, a lungo colonne dell’avanguardia e della sperimentazione, abbiamo dovuto fare i conti.
In tema, notevole è l’uso che fai delle luci
Già, le luci, che Pirandello aveva in mente. Altrimenti non avrebbe messo in scena degli elettricisti. Prima non a caso ho evocato Bob Wilson e i suoi spettacoli in cui faceva un uso della luce magnifico. Così tutti noi giovani riscoprivamo la luce come uno degli elementi di quel linguaggio, di quella nuova scrittura scenica. Comunque, mi sono divertito pazzamente a lavorare sulle luci; in pratica il «disegno» è durato fino alla prova generale e oltre. Ha segnato il campo per gli ultimi ritocchi drammaturgici.
Cominciano ad intrecciarsi molte questioni e domande. Dall’alta e raffinata cosmesi drammaturgica delle luci, alla filosofia che irrompe sulla scena, in apertura e chiusura, con due prelievi dal «Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein» …
Ho contestualizzato la filosofia di Wittgenstein se si vuole in modo politico. Desideravo diventasse un apologo del regista all’interno dello spettacolo. Le indicazioni che dà il regista in scena sono le medesime che io davo agli attori. E c’è l’autore, che tutti conoscono e che Hinkfuss con un po’ di ritrosia ne pronuncia il nome: Pirandello.