La famiglia come nucleo della società, con le sue contraddizioni e i suoi conflitti. L’azione si svolge intorno alla tavola durante una cena. Un interno borghese egiziano con accenni di rivoluzione sullo sfondo, è The Last Supper, spettacolo teatrale del regista e drammaturgo Ahmed El Attar. I commensali sono esponenti della classe agiata del paese, il padre e il generale sono le figure principali, simboli del patriarcato e del potere politico, figli e nipoti conversano di denaro, affari, frivolezze, successo, moda, sono scambi superficiali, vuoti, spesso beceri e volgari che gettano spunti su temi più profondi, fra cui quello della donna come figura subalterna. Fra grida, pianti e litigi si apre una finestra su una fetta di realtà egiziana raramente raccontata, un’istantanea del paese, ma allo stesso tempo universale, che svela vizi e meschinità di un ceto sociale che disprezza il popolo, i poveri, manca di rispetto al personale di servizio e alle donne che umilia. Il titolo e l’impianto scenico s’ispirano all’ultima cena vinciana, ma non c’è nulla di biblico, la tavola e gli attori sono rivolti alla platea, le pareti sullo sfondo sono lastre di freddo metallo. Una preziosa occasione vederlo nelle uniche date italiane all’Arena del Sole di Bologna, presentate da ERT. Un lavoro che sta girando con successo l’Europa, e non solo, dopo il festival di Avignone dell’estate scorsa e il festival d’Automne di Parigi a novembre. The last supper, interpretato in lingua originale da attori molto noti di cinema e televisione, è stato scritto dopo le proteste di piazza Tahrir del 2011 che, il 25 gennaio scorso, proprio mentre gli attori calcavano le scene, festeggiava il quinto anniversario. A Modena il regista è stato protagonista di un’altra pièce On the importance of Being an Arab. Abbiamo incontrato Ahmed El Attar, esponente della scena indipendente egiziana con la sua The Temple Indipendent Company, fondatore dello Studio Emad Eddin Foundation, uno spazio aperto alle arti performative, e direttore di alcuni festival.

È da poco stato il quinto anniversario della rivoluzione e delle proteste di Piazza Tahrir, cosa pensa delle misure per scoraggiare le manifestazioni?

Non so bene come si sia festeggiato, non ero lì, ma so che non si può cambiare la storia: il 25 gennaio 2011 è arrivato in Egitto e nessuno potrà cancellare o cambiare questo. Si potrà raccontare in altro modo, ma tutto il mondo l’ha visto e milioni di persone l’hanno vissuto. Un tentativo di riscrittura della storia a mio avviso non funziona.

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Nello spettacolo, alludendo alla rivoluzione, più volte si parla di tempesta passeggera. Ci spiega meglio?

Per la classe al potere, normalmente molto agiata, che non coincide unicamente con la classe politica, ma approfitta del potere, si è trattato di una tempesta passeggera. Qualcosa che è successo ed è passato. Penso si sbaglino, anche se le cose hanno preso un’altra direzione. Per il cambiamento ci vuole tempo, questo è l’inizio di un vero processo che impiegherà anni, non è finito. La rivoluzione è stata solo un inizio.

Nel testo si usa spesso il termine parassiti. A chi si riferisce?

Nei paesi arabi, non vale solo per l’Egitto, la classe dirigente pensa che gli altri siano parassiti: buoni a nulla. C’è un forte razzismo di classe.

Lei non si definisce un regista politico anche se il suo teatro è portatore di temi politici e sociali.

Il mio punto di vista è artistico. L’arte e il teatro sono politici e sociali, ma quando lo diventano sono arte povera. Non mi piace costruire uno spettacolo per presentare un’ideologia, questo ucciderebbe il processo di creatività che deve mantenersi libero. La magia è farsi guidare verso risultati sconosciuti. Credo nella creazione artistica. L’arte ha un ruolo nel cambiamento sociale che dà i suoi frutti nel tempo. Questo spettacolo è statico, la scenografia è fredda, il testo non ha un ruolo così importante, è come le luci e il suono, è una parte, non è tutto. Il lavoro non propone soluzioni né cambiamenti, è solo una finestra su una parte di realtà. Può offrire spunti sul ruolo della donna e del padre, ma è un affresco in cui possono ritrovarsi molti paesi in tutto il mondo.

Com’è cambiato, se lo è, il modo di fare teatro prima e dopo le proteste di piazza Tahrir?

Non penso sia cambiato o comunque è presto per rendersene conto. Piuttosto c’è stata la possibilità per più persone di esprimersi e in vari modi, questo ha prodotto risultati diversi. Non c’è stato veramente un cambiamento sulla scena artistica. Ho subito alcune pressioni, ma di poco conto rispetto ai giovani che non hanno anni di carriera alle spalle. Ho una certa fama internazionale che mi protegge un po’, non molto.

The Last Supper è una metafora di una parte della società egiziana?

No, è la rappresentazione della realtà di una famiglia borghese esagerata. Lavoro da molti anni sul tema della famiglia, da quando ho realizzato che rappresenta le relazioni di potere in seno alla società. La figura del padre è molto interessante in questo senso. Il pubblico europeo ha potuto vedere un altro lato della società araba e ha fatto il parallelo fra la classe borghese araba e quella internazionale, europea, di oggi. Forse può essere un po’ più raffinata, ma ci sono personaggi altrettanto ricchi, vuoti e indifferenti al mondo ovunque. Ci siamo confrontati molto con il pubblico, ogni volta la gente ci ha detto che le stesse dinamiche si ritrovano anche qui.

Ha già in mente nuovi progetti?

Sì, Mama, uno spettacolo ispirato alla mia percezione che la donna araba sia parte integrante e complice della propria oppressione. Sarà incentrato sull’educazione dei figli e ruoterà attorno a due figure: madre – nuora e il rapporto di potere che intercorre fra loro, ancora una volta calate in un contesto borghese. Penso sia importante raccontare la condizione femminile araba dalla parte di un uomo.
The Last Supper sarà a Berlino in aprile, poi da agosto fino a gennaio 2017 toccherà fra le altre Singapore, Beirut, Hong Kong.