Sono diventate famose le immagini del ragazzo brasiliano che balla davanti ai poliziotti, durante gli scontri della cosiddetta «revolta do vinagre» (la rivolta dell’aceto, che allevia i gas lacrimogeni), scoppiata nel 2013 per ottenere migliori condizioni di vita. Il nemico, armato e furibondo, sparò e per poco il ragazzo non ci rimase secco.

Non si sa perché danzasse quel ragazzo. Non è sempre facile capire il comportamento del popolo brasiliano, che ride e gioca anche quando ha paura. E ogni tanto ci sorprende con attitudini ancora più strane. In questi giorni che precedono l’attesissimo Mondiale di calcio, per esempio, la gente scende in piazza gridando a squarciagola: «Não vai ter Copa!» (questa Coppa non s’ha da fare). Boicottano l’evento. Proprio loro, quelli che il calcio…

Da Casa e catapecchie di Gilberto Freyre, ai Tristi tropici di Lévi-Strauss ci hanno provato in tanti, e ci provano ancora a spiegare l’essenza brasiliana.

Ma mettiamo il caso che quell’atteggiamento giocoso davanti al tragico possa essere spiegato a partire dalla storia di uno di loro, nato avventurosamente nel 1911 da una famiglia povera di Salvador di Bahia. Uno il cui padre era un immigrato emiliano, operaio e anarchico, e la mamma una fiera discendente degli africani Houssá – tra coloro che dettero fuoco a Salvador nel 1835, per farla finita con la schiavitù.

Si chiamava Carlos, il piccolo, e pur di tenerlo buono, affinché non scappasse a giocare a pallone, la mamma una volta dovette legare la gambetta scalciante del ragazzino alla gamba del tavolo. «Non farlo mai più, dona Rita», qualcuno la rimproverò. «Se lo tiene legato, lui non sarà mai libero, per il resto della vita». Alla mamma prese un colpo, e lo slegò subito. Meglio il pallone, piuttosto che non essere libero. No. Carlos doveva studiare, diventare un dottore ed essere felice. Sembrava proprio nato per esserlo. Andava al mare, ballava a carnevale vestito da donna, scriveva poesie e giocava a calcio, innamorato pazzo della squadra del Corinthians, fondata da operai anarchici nella lontana San Paolo del Brasile. E più studiava, più andava al mare, più giocava a calcio, più Carlos diventava bello e ammirevole. Ma era anche diventato un comunista. E questo, certa gente non riusciva a capirlo.

Carlos incominciò da leader studentesco: e fu messo in galera. Se ne fece così tanti, di anni, che finì col perdersi la gioventù – ma la sua storia era la stessa di tanti ragazzi neri, in Brasile. Poi, da quadro dell’allora clandestino Partito comunista, tornò dentro un’altra volta, e subì una buona dose di tortura. In carcere, Carlos non si annoiava: insegnava inglese, giocava a calcio e…sorrideva.

Finalmente fuori, nel 1946 fu eletto deputato per il Pc – non più clandestino – insieme al compagno Jorge Amado, che di Carlos scrisse: «Dentro di lui, la tenerezza e l’ira». Ma l’ira, se c’era, era solo quella di voler sconfiggere il capitalismo, tutto qua.

Un giorno Carlos – negro, cristiano e comunista – conobbe un’ebrea, bianca, di nome Clara. Appunto. Ma nel 1948 il Pc fu messo di nuovo al bando, e i promessi sposi dovettero rimanere promessi – poiché da latitanti, non sarebbe stato mai concesso loro di presentarsi in comune per sposarsi.

Dicono che Carlos pianse una sola volta nella vita, e fu quando Nikita Krushev denunciò i crimini di Stalin, era il 1956. Ma no, niente disperazione. Juscelino Kubitschek era diventato presidente del Brasile, e chissà, magari JK avrebbe fatto uscire il Pc dalla clandestinità. Sì? No.

Poi arrivò Jânio Quadros, e la sua rinuncia. E poi João Goulart e la crisi per il suo insediamento. Che emozione. Si parlava e si respirava un grande cambiamento sociale, nonostante la rabbia dei militari covasse sotto la cenere. Enorme era la confusione sotto il cielo, e quindi… Niente. Non si fece in tempo a organizzarsi. Il 31 marzo del ’64, il golpe. Carlos e Clara erano diventati i primi nella lista dei ricercati del regime militare. Latitanti e clandestini, ricominciava tutto di nuovo. Ma ora, nella lotta armata.

Ogni tanto Carlos riappariva da qualche parente, di nascosto, tornato da un’azione di guerriglia. C’era stato il sequestro dell’ambasciatore statunitense, qualche espropriazione nelle banche…Erano tempi duri: uccidere o morire. Nascosto a San Paolo con Clara, nonostante tutto, Carlos continuava a sorridere e scrivere poesie. Quando poteva, giocava a pallone, facendo innamorare tutti, con la sua bella figura dal colore marron-dorato.

La sera del 4 novembre 1969, quella in cui finisce la storia, Carlos aveva pensato di andare a vedere il derby Corinthians vs. Santos, allo stadio del Pacaembu. Il Corinthians non vinceva mai contro Pelé e lui soffriva… Doveva anche incontrarsi in gran segreto con due frati domenicani, impegnati come lui nella lotta contro il regime. Carlos Marighella – il guerrigliero Marighella, l’eroe meticcio, erede della fierezza di un immigrato anarchico italiano e della madre guerriera africana – fu crivellato di colpi dalla polizia politica che gli aveva teso un’imboscata, proprio mentre la sua squadra, finalmente, vinceva per 4 a 1. Quanto gli sarebbe piaciuto potersi godere quel risultato. Che peccato, Marighella, perdere così quella partita.

E allora. Questi ragazzi che scendono in piazza, in Brasile, alla vigilia del Mundial? Sembra strano che se la giochino perché non ci sia la Coppa. Gridano che non ci sarà nessuna Coppa finché non ci saranno diritti uguali per tutti. E mentre lottano, sorridono e ballano. Danzano davanti ai poliziotti armati. Son proprio strani, questi brasiliani.