Il Festival di Almada è arrivato alla sua 33° edizione, ha moltiplicato i suoi momenti di ricerca (quest’anno l’approfondimento dedicato a un maestro che era toccato negli ultimi anni a Luis Miguel Cintra e Peter Stein, verteva sul lavoro del portoghese Ricardo Pais), ed è riuscito a pescare in Europa diverse cose interessanti. Il ruolo principe era del tedesco Thomas Ostermeier, eterno giovane e direttore della Schaubühne berlinese, di cui sono andate in scena due diverse modalità di lavoro. Quella da grande palcoscenico e di cospicua compagnia era Il gabbiano di Cechov prodotto dallo svizzero Theatre du Vidy, in francese e con compagnia illustre nella quale la protagonista Irina era Valerie Dreville. Grande spettacolo su una scena apparentemente nuda, in cui perfino il fondale diveniva progressivamente nero dal grigio originario, quasi passasse dallo spleen alla disperazione, grazie all’infaticabile pennellessa di una figurante. Il dramma, o meglio i diversi drammi di quella famiglia «allargata» e intrecciata nei ruoli, manteneva la struttura e i dialoghi cechoviani, cui aggiungevano una sottile angoscia le iniezioni di «modernità» che la mano abile di Ostermeier è capace di instillare in ogni classico: telefonini e selfie, un basso elettrico, un bicchiere in mano per quel party continuo che è la vita.

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Qui anzi tutto risultava meno «estraneo» di altre occasioni, perché nel Gabbiano in fondo Irina è una grande attrice, suo figlio un aspirante teatrante che spinge verso il palcoscenico sul lago (in questo caso galleggiante sulla platea) anche la giovane Nina di cui è perdutamente innamorato, come del teatro. Con qualche gesto tipicamente francese, ad esempio quell’alzata di spalle del vanaglorioso Trigorin, poeta dongiovanni che porta Nina alla disperazione.

Ben più consapevole e agguerrita nella sua disgrazia terrena è la creatura femminile portata da Ostermeier nell’altra sua modalità di lavoro: quasi un monologo, disperatamente e sfacciatamente contemporaneo come è Susn di Herbert Achternbusch. È quasi una alter ego dell’autore bavarese l’eroina di questa piece di qualche decennio fa, interpretata da Brigitte Hobmeier nella produzione che è proprio dei Kammerspiele di Monaco. Ripresa impietosamente lungo momenti a dieci anni uno dall’altro, lei srotola la propria vita dalle iniziali ambizioni a una vecchiaia senza infelicità, e forse anche senza più desideri, assisa nella scena finale sul water, dedita a pregare e interloquire con la statua di un santo (ma sfogliando nella memoria parole dedicate proprio a un certo Herbert…).

O feio è stata invece la produzione di punta della compagnia del teatro di Almada. Il brutto, come suona la traduzione, pone il problema dell’accettazione dell’identità, fisica ma non solo, in tempi di chirurgia estetica oltre il paradosso. Autore del testo è il tedesco Marius von Mayemburg (uno dei prediletti da Ostermeier per altro), ma la regia è affidata a un italiano, Toni Cafiero. Poco noto in patria per essersi formato alla scuola di Lecoq, è proprio quella visione del teatro a informare la sua lettura dello spettacolo, spinto verso un parossismo di gesti e di ritmi che la rendono sicuramente originale. Italiano era anche un breve ciclo di «novissimo teatro», quattro formazioni da Teatro Sotterraneo a Carrozzeria Orfeo, a Dispensa Barzotti (teatro di figura muto, ma con suggestioni felici) e il duo Civilleri-Lo Sicco che inventa una macchina scenica bellissima incentrata su un Tandem, anche se poi si perde un poco nelle volute del testo.

 

Appassionante e coinvolgente la testimonianza femminile e solitaria di un’attrice argentina , Laura Nevole, in Tropico del Plata, scritto e diretto da Ruben Sabadini. Testimonianza di un percorso di abiezione che per amore arriva alla prostituzione e oltre. Ma è francese, Compagnie du Zieu in Piccardia, lo spettacolo che lascia forse il maggior ricordo. Due donne e un uomo che davanti al pubblico seduto in cerchio, danno vita alle tragedie di Otello, variazioni per tre attori, usando solo pezzi di abbigliamento, qualche oggetto desueto, certe allusioni e fondati interrogativi su come funzionasse l’economia del capitale in quella Venezia lì. Ma soprattutto usando una grinta fantastica, una sapienza scenica, e una gran voglia di divertire, il pubblico e se stessi. Nell’ambiente fascinoso di una vecchia sala da ballo anni 50.