Un lungo serpente rosso, quasi un drago senza testa, si è snodato l’altro pomeriggio per via Alessandrina, l’antica strada che scorre parallela al «falso storico» dei Fori imperiali al centro della città. A sostenere quella infinita e setosa traccia rossa con le proprie braccia, molte persone (qualche viso noto, di artisti e intellettuali e anche dell’assessore Marinelli, e molti sconosciuti) che avevano raccolto l’appello al flash mob delle Vie dei Festival e del Belarus Free Theatre, che nell’ambito di quella rassegna ha presentato al Vascello Red Forest (oggi alle 18.30 al teatro Fabbri di Vignola, ospite delle Vie modenesi ed emiliane). Perché quella pubblica manifestazione contro l’allargamento dissennato del fracking, che permette di trivellare alla ricerca di combustibili perfino le aree abitate, era la «facciata esterna» dello spettacolo, che del resto scopre un allargamento di tematiche e linguaggi da parte del gruppo bielorusso.

Il Belarus è ormai di casa in Italia da anni (nonostante, o forse proprio perché, il dittatore Lukashenko ha avuto tra i suoi pochi amici l’ex presidente Berlusconi). L’ultima volta la compagnia era stata accompagnata a Roma da Tom Stoppard, che con Harold Pinter e altri artisti e intellettuali della scena inglese per primi hanno sostenuto il suo diritto all’esistenza e alla ricerca, anche se perseguitati spietatamente in patria.

Ma tutto questo è noto, e i suoi spettacoli che da quell’emergenza sono nati, restano nella memoria indimenticabili, a partire dalla menzione a sorpresa che ne fece un Premio Europa a Salonicco. Ma ora, trasferitisi definitivamente a Londra Natalia Kaliada e Nikolai Khalezin (che sono riusciti a farsi raggiungere anche dai figli) intraprendono un nuovo percorso teatrale e civile. Anche se il punto di partenza resta legato alla amata terra natale, e allo scempio nuovo e «moderno» che si appresta a subire: la costruzione di una megacentrale nucleare nel loro paese, a Ostrovets. La Bielorussia ha già subito pesantemente le orrifiche conseguenze di Chernobyl nella vicina Ucraina, e continua a pagarne i danni; ma poiché il paese è fuori della Ue, nessuno dall’Europa è riuscito a proibire o controllare l’iniziativa, che invece rientra nei rapporti assai cordiali con la Russia di Putin.

Il dopo Chernobyl, che già era stato al centro di un duro e struggente spettacolo del Belarus (attorno alla vicenda del vigile del fuoco impegnato nei soccorsi dopo l’esplosione, e destinato a venirne contaminato fino alla morte), è ora presente anche in Red Forest, come un episodio tra i tanti della follia omicida contro l’ambiente, che in nome di un fantomatico progresso va causando da secoli guerre, distruzioni etniche, lotte fratricide e soprattutto un assalto assassino alla natura, prima ancora che ai diritti e ai bisogni delle persone. Lo spettacolo è in questo senso un vero appello al recupero dell’umanità, come principio e come creature.

Il Belarus ha raccolto un gruppo di lavoro internazionale di giovani artisti (c’è anche un italiano) con i quali attraversare un secolo di storia e di soprusi, di bugie e di conflitti, dove a rimetterci sono sempre più deboli. Si parte dai nativi americani spinti e costretti a lotte intestine e cruente, in cui moriva prima ancora di intere popolazioni, ogni fratellanza. Per passare con la velocità dello sguardo (e quindi della visione teatrale, fatta anche di musica e danza) ad altri continenti, dall’Oceania all’Africa all’Europa. Sull’alto della scena, oltre ai sottotitoli, scorrono le immagini fascinose girate dall’equipe durante la preparazione del lavoro. Sul palcoscenico si succedono episodi tranchant di violenze che si infittiscono e dilagano, impersonate dalla ragazza africana che sradicata dalla Nigeria al Congo, diviene poi la vittima sacrificale di ogni situazione.

Cambia anche il linguaggio teatrale del Belarus, pure se ne resta alta l’intensità al calor bianco. Si sentono e vedono echi del teatro antropologico di Eugenio Barba, ma risuonano anche giudizi storici degni di Peter Weiss, senza rinunciare all’afflato del grande documentarismo politico del cinema anni Sessanta. È anzi molto interessante come nella visione del Belarus tutto questo conviva organicamente: l’uomo che si scaglia ciecamente contro la natura, è lo stesso che infierisce con lo stupro contro una creatura indifesa. Una visione nell’insieme inquietante, che cerca un respiro globale fuori dell’inferno vissuto in patria, e che non accenna a terminare per i compatrioti rimasti là. Senza supponenza né presunzione, il Belarus allarga il raggio delle responsabilità. Lasciando forse qualche delusione a chi si era affezionato al loro «iperrealismo» che poteva affondare il coltello nei dolori di una «jeans generation» postsovietica, o piegarsi con commozione senza lacrime su rapporti familiari o di convivenza forzata, sbiaditi e opachi ormai come una rosa appassita. E tempo di allargare lo sguardo, e alzare il livello d’allarme, sembrano dire; prima che la Red Forest ci ricopra inestricabile, col suo portato di sangue.