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«Per quale motivo l’Università e le scienze sociali diventano improvvisamente un bersaglio della repressione? Chi autorizza la polizia a entrare nelle aule universitarie? Quali narrazioni si vogliono impedire?» Sono queste le domande in calce all’ottimo e utile dossier appena composto da «Effimera» e pubblicato ieri che va a ripercorrere in sette punti la china pericolosa di sorveglianze, indagini, campagne denigratorie e relative condanne che hanno interessato ricercatori, ricercatrici, studenti coinvolte e coinvolti a vario titolo nei movimenti politici territoriali.

È capitato nel 2002, a un anno dalla conclusione del G8 di Genova, quando una ventina di persone – tra cui anche ricercatori dell’Università della Calabria – vengono arrestate per associazione sovversiva. Di fatto, si trattava allora di sbrindellare ulteriormente il movimento No Global e quindi la rete meridionale del Sud ribelle. Quando poi, nel 2015, a Francesco Caruso – ex leader della rete – viene affidata una docenza presso l’Università di Catanzaro, parte una cordata diffamatoria ai suoi danni da parte di una testata nazionale, un sindacato di polizia e alcune formazioni di destra.

L’ingerenza di polizia, magistratura e opinione pubblica di destra all’interno dell’accademia, conosce una ulteriore e inquietante declinazione nel caso di poco più di tre anni fa, quando Charlie Barnao (Università di Catanzaro) e Pietro Saitta (Università di Messina) danno alle stampe un saggio breve dal titolo Autoritarismo e costituzione di personalità fasciste nelle forze armate italiane: un’autoetnografia che scatena subito la compatta reazione della brigata paracadutisti Folgore e altre varie entità di veterani a cui fanno fatto seguito petizioni per chiedere il licenziamento dei due ricercatori.

Napoli, Milano, Bologna ma anche Torino, Cosenza, Messina, per motivi di ordine pubblico e sicurezza soprattutto relativamente a occupazioni studentesche o convegni non graditi, molte sono le scene universitarie menzionate e in cui a un certo punto hanno fatto irruzione digos e magistratura a segnare un territorio che non dovrebbe essere troppo impermeabile con ciò che sta fuori di esso. La rappresentazione che si vorrebbe dare è quindi di rovesciamento del carattere libero della mobilità e mobilitazione della ricerca e di chi la fa. A confermare la nuova ondata che ha tutto l’aspetto di una strisciante repressione vi è l’ultimo episodio: quello dell’antropologa ventinovenne Roberta Chiroli, condannata a due mesi con l’accusa di concorso morale in violenza aggravata (ilmanifesto del 22/6/2016) e che come unica colpa ha avuto, all’interno della sua tesi di laurea, quella di usare il «noi».

Il messaggio di questa deriva è abbastanza evidente: sarebbe preferibile una ricerca meno libera e senza troppe sorprese, controllabile e possibilmente addestrabile all’automoderazione critica come unica lente per la partecipazione politica al presente.