Considerato, insieme a John Toland, il maggiore esponente dei liberi pensatori inglesi del primo Settecento, Anthony Collins era un gentiluomo di famiglia assai ricca, che si dedicò a studi giuridici a Cambridge, senza concluderli, ma – in compenso – strinse amicizia con il vecchio Locke, che stimava l’umanità e l’intelligenza del giovane amico, tanto da scrivergli di non conoscere nessuno che avesse compreso così bene come lui il suo Saggio sull’Intelletto umano. Solo dopo la morte del grande filosofo, tuttavia, Collins cominciò a pubblicare i suoi primi lavori, che gli procurano rapidamente una discreta rinomanza come pensatore eterodosso, in prima fila nell’affermare, anche in materia di religione, il principio che above Reason equivale a contrary to Reason, cioè che quello che si pretende superiore alla ragione e quindi immune da qualunque analisi critica è solo un irragionevole dogma, a meno che non sia una interessata impostura pretesca.

In quei decenni l’Inghilterra, uscita dalla gloriosa rivoluzione del 1688, era – insieme all’Olanda – il paese europeo dove il dibattito filosofico si svolgeva più libero e la tolleranza nei confronti del dissenso religioso era maggiore che altrove: lo testimonia Voltaire, il quale – esiliato da Parigi – restò in Inghilterra per tre anni e ne tracciò poi un lusinghiero ritratto nelle Lettere inglesi (o Lettere filosofiche, del 1734). Il suo quadro è troppo ottimista, ma quelli erano pur sempre gli anni in cui si contavano menti come quelle di Berkeley e di Swift, di Defoe e di Pope, nonché – per l’appunto – tutto il variegato esercito dei cosiddetti deisti, che va dai moderati latitudinari come Newton fino a un panteista-materialista come Toland (non a caso grande estimatore di Giordano Bruno). E tuttavia anche in Inghilterra, benché più libera della Francia assolutista, c’erano limiti che non era opportuno oltrepassare: se Locke aveva pubblicato nel 1695 La ragionevolezza del Cristianesimo non senza suscitare critiche anche severe da parte dei difensori dell’ortodossia, l’anno seguente si era sentito in dovere di prendere le distanze dall’aggressivo Cristianesimo senza misteri di Toland, che aveva provocato un vero e proprio scandalo e un vespaio di aspre polemiche.

Il primo scritto di Collins che destò un’eco imponente è anche il suo primo capolavoro, redatto nella forma di un vero e proprio manifesto, il Discorso sul libero pensiero (che uscì nella traduzione a cura di Ida Cappiello per liberilibri solo nel 1990) gratificato da un immediato successo anche all’estero (fu subito tradotto in francese), diventando anche uno tra i bersagli preferiti degli apologeti cristiani (tra gli altri critici c’era anche Jonathan Swift, che gli dedicò una satira). Non meno importante, quattro anni dopo, fu l’uscita della Ricerca filosofica sulla libertà umana, della quale è appena uscita la prima tradizione italiana (introduzione, traduzione e note di Jacopo Agnesina, con testo a fronte, Bompiani, pp. 223, euro 19, 00). Qui, l’uomo che aveva difeso nel suo più famoso pamphlet il libero pensiero, si fa assertore, sebbene con garbata fermezza, di tesi schiettamente deterministe, (nonché edoniste e potenzialmente, o implicitamente, materialiste). Fin dalle primissime pagine della prefazione, Collins dichiara: «sebbene io neghi la libertà in un certo suo significato, difendo la libertà quando rappresenta il potere dell’uomo di fare ciò che vuole, o ciò che desidera». Sta qui il punto essenziale: rifiutato un metafisico libero arbitrio, Collins individua la vera libertà nella sua dimensione materiale e politico-sociale; l’uomo è libero quando nessuna persona (un padrone qualunque) o nessun ostacolo (la malattia, per esempio) gli impedisce di fare quel che desidera o lo costringe a fare quel che non desidera; ma non è affatto libero di non volere quel che vuole, perché «ogni cosa che ha un inizio, deve avere una causa», che la conosciamo o meno.

È facile riconoscere nell’impianto del pamphlet la derivazione da Locke, e più precisamente dalle pagine celebri del XXI capitolo («Del potere») del II libro del Saggio sull’intelletto umano: la libertà non è e non può essere la cosiddetta libertà d’indifferenza; se l’uomo sceglie tra due alternative, lo fa perché è determinato dalla propria mente, magari sbagliandosi, a preferire l’opzione che ritiene migliore; e se sceglie di non scegliere, è perché giudica di non essere in grado di decidere, e quindi non è meno determinato dal proprio giudizio.

Ma la Ricerca non è una semplice ripetizione del pensiero di Locke, intanto perché bisognerebbe accostragli anche l’influenza di maestri come Hobbes e probabilmente Spinoza (il cui influsso sull’Illuminismo delle origini è stato sottolineato – forse esagerando, ha obiettato Margaret Jacob – nei recenti studi di Jonathan Israel); poi perché la Ricerca presenta già lo stile di pensiero che sarà del maturo Illuminismo, una delle cui caratteristiche è stata l’abbandono dei grandi sistemi del XVII secolo (di Descartes e di Leibniz, di Spinoza e di Hobbes, di Newton e di Locke). Per quanto si considerassero figli di quei grandi, gli Illuministi si pensavano ormai maggiorenni e chiamati per un verso a divulgare le scoperte del secolo precedente, per altro verso a emanciparsi dal dogmatismo implicito nell’idea stessa di un sistema che si pretendeva totalizzante e onnicomprensivo (Condillac scrivesse un trattato per dimostrare che tutti i sistemi ci legano le mani).

Non a caso, la radicalizzazione che Collins imprime, nel suo pamphlet, alle complesse analisi di Locke (o di Hobbes) vennero assai apprezzate da Voltaire e da Priestley: fra quelle pagine affronta con franchezza anche le più spinose implicazioni del determinismo: per esempio quando confuta l’obiezione, una delle più forti, per cui se c’è determinismo il criminale non sarebbe più colpevole, né meritevole di un castigo. In effetti, risponde il filosofo, il malvagio merita compassione piuttosto che odio, ma va punito per impedirgli di nuocere ancora e per incutare un salutare timore in chi desiderasse imitarlo.

Scritta in maniera tanto limpida che potrebbe ancora oggi costituire una buona introduzione al tema della libertà, l’opera non è priva di eleganza polemica. Se in apertura del libro Collins si preoccupa di distinguere tra la necessità morale che condiziona l’uomo e «quella degli orologi… che, per mancanza di sensazione e di intelligenza, sono soggetti a una necessità meccanica», verso la fine – quando si tratta di confutare l’obiezione per cui la mancanza del libero arbitrio sarebbe per l’uomo un’imperfezione – evidenzia con stringenti argomenti la paradossalità di questa tesi.

D’altra parte, per dimostrare che non c’è una percepibile differenza tra il comportamento degli animali e quello degli uomini, in altre pagine Collins descrive lungamente la vita delle pecore: basta leggere per rendersi conto che in realtà questi animali che si muovono in un senso o nell’altro, sono spinti dai desideri di qua o di là, cercano il pascolo o si accoppiano, «litigano tra loro per amore o altre questioni fino a combattere», «seguono i leader che presumono più importanti» e così via non sono affatto soltanto le pecore. Quel che distingue un uomo da un orologio o da una pecora, insomma, è la consapevolezza: il filosofo, sta scritto nella voce omonima dell’Encyclopédie (una sorta di autoritratto ideale dell’Illuminista dovuto a Dumarsais), è «una macchina…che, grazie alla sua costituzione meccanica, riflette sui propri movimenti», sicché è come «un orologio che talvolta si carica da sé».