Le definizioni dell’arredo oscillano fra due limiti estremi, come il moto di un pendolo. A un estremo, c’è la casa intesa esclusivamente nella sua funzione, come freddo strumento d’uso. All’altro estremo c’è la casa intesa come espressione poetica, sentimento, spazio psichico. Tecnologia contro emozione? Prodotto meccanico contro oggetto fatto a mano? Industria contro artigianato? In realtà, il percorso avanti e indietro del pendolo dà luogo a infinite interpretazioni dell’arredo, e a infiniti atteggiamenti e professioni.

L’emozione che una casa può contenere è inversamente proporzionale alla complessità del suo uso. Più è tecnologica meno ci sarà possibilità di libera espressione dello spirito. Per divenire il palcoscenico della vita privata, la casa va letta anche per via psicoanalitica. Per esempio, tutta l’estetica della forma di un frigorifero è concentrata nella sua funzionalità. Nel frigorifero l’estetica è limitata al progetto grafico. E all’opposto più l’oggetto ha un uso elementare e semplice, meno vincoli avrà l’estetica della sua forma.

Un vaso non necessita di molta ingegneria per contenere i fiori. La ricerca della bellezza della sua forma artistica può essere proprio l’obbiettivo diretto della sua esistenza. In questo caso il design parte dalla forma invece che dalla funzione. Il vaso serve per la sua bellezza. In questo punto limite del moto del pendolo, La casa emozionale si avvicina ai linguaggi, ai materiali, ai colori, ai simboli, ai metodi e ai territori dell’arte, della psiche e dell’antropologia.

Ma, in questo tempo, la casa è priva di «figura». La figura intesa come visibile affermazione di una vita ricca di dignità rituale. Il design agnostico sfugge e scivola nel limbo dei gadget, nella moltitudine delle assenze. Non solo gli ambienti e gli oggetti, ma anche le tecnologie, i comportamenti, i materiali. Tutto il mondo è concepito come un enorme fragile eppure violentissimo gadget.

L’ultimo «ismo» dell’architettura sembra essere uno spensierato «agnosticismo». Spensierato perché privo di pensiero motivante. Il vero movente motivante è solo quello macroeconomico. Lo scenario è pulviscolare. La polverizzazione delle discipline dell’immagine esplode in miriadi di sotto e infra professioni, il cui moltiplicatore origina un gigante acefalo.
Un enorme bulimico magma indifferenziato, una fitta nebbia non ossigenabile. Le nuove mille attività virtuali ridondano di azioni prive di obbiettivi. L’aberrazione quantitativa delle notizie e della conoscenza, unita all’astrattezza iper-terziaria delle professioni crepuscolari, rende piatta la linea energetica delle creazioni. Lavoro uguale gadget, uguale a mancanza di responsabilità. Dentro a questo spensierato (oppure cinico) modello di riferimento si devono però cercare, trovare e agire delle prese di responsabilità.

È quanto chiamo Casa emozionale. Responsabilità estetiche, umanistiche, psichiche, antropologiche, sociali. Abbandonare le immagini tutte esterne, prive di «visione». Addio all’allegro parco di oggetti, tutti e solo giochi dalle vacue fantasie. Addio alla dilatazione del progetto a tutto lo scibile. Addio al fatalismo. E nel considerare questo enorme sistema si distinguano le discipline fondamentali da quelle di servizio: tutte sono degne, ma gli obbiettivi sono divaricati. Al centro il grande enigma della permanenza della «figura», della artisticità del design. Allora in questa neutralizzazione degli obbiettivi del vivere contemporaneo, privato di ambizioni, desemantizzato, destrutturato, manca evidentemente qualcosa. Ed è quel qualcosa che manca in questa epoca anche agli scenari più vasti e generali rispetto a quello del design.

Non è detto che tutto debba diventare politica o scienza o anche (più in piccolo) che tutto debba diventare design. Invece, tutto deve diventare «utopia». La sopravvivenza del mondo è legata tutta e dovunque (occidente e oriente) alla emersione dai ruderi del capitalismo e del tecnologismo, di grandi utopie umanistiche. Ipotesi e intenzioni di modi di pensare alla vita sub-specie mitologica, simbolica, emozionale. Ridefinizione del senso degli oggetti, del senso dei linguaggi e dei modi di usarli e produrli. La pulviscolarità dei modelli di comportamento, la loro disponibilità infinitesimale, questa frammentata nube può assumere un senso progettuale tale da tradursi in nuove conformazioni, in nuove presenze interiori, in «cose ferme», e non aeriformi,capaci di emettere energie antropologiche e rituali.

È il tempo dove non si crede, dove tutto scivola in orizzonti di indifferenza progettuale, elaborata in uno stato di solipsismo. Lo sguardo resta basso, l’orizzonte è corto e privo di teorizzazioni. Si fa, ma non si sa cosa si fa. Addio alla ricerca del carisma dell’oggetto, della sua mitologia e dignità della sua vita. Il disegno iconico non può disperdersi nella neutralità ottica, assunta come fine. Occorre il segno, la «presenza» dedicata.

Le cose non possono nascere con già inclusa la loro aura di spazzatura, in una condizione di implicita volgarità dell’uso. Le sfere da chiromante, le lampade da tavolo a forma di Tour Eiffel e i Pinocchi di legno sono importanti feticci per il mito del nostro quotidiano. Sono quelle le normali meraviglie del design. Legate al destino umano, contengono l’energia de-progettuale del racconto, esistono e non si chiamano design. La silenziosa amorevole forma e presenza delle «cose vere» nella loro immutabile sciamanica storia infinita.

Da vari anni, e ora in particolare, si usa fare censimenti sul design che si trasforma. È bene rilevare gli stati di fatto, favorire l’emersione delle tendenze generali di sviluppo. Ma la tendenza generale di una condizione professionale raramente coincide con le più sottili e nascoste tensioni di trasformazione, che sono latenti, vanno cercate in luoghi strani e difficili e valorizzate in modo mirato. È lì che si deve cercare, se si vuole ritrovare la strada perduta dell’utopia nella grande misura della storia.
È un atto di panteismo. Se un oggetto non viene sacralizzato non assurge a dignità di cosa, non si omologa con l’anima (e con l’eleganza) della natura. Le immagini delle cose e dei gesti sono latenti dentro di noi. Sono dilatate e affidate alla lenta misura del tempo. Quel tempo e spazio dove gli oggetti divengono «cose», e dove il modo del progetto recupera il suo senso.
L’elemento coagulante di una nuova coscienza, di un nuovo stile metodologico potrebbe emergere dalla coscienza della debolezza dell’uomo e dall’idea della delicatezza delle cose.