Una Terra stremata da integralismUi e crociate, dove i corsi di scienza sono proibiti e gli insegnanti divulgano teorie complottiste sulle missioni Apollo. Sin dalla prima inquadratura su un modellino impolverato di Shuttle, l’apocalisse di Christopher Nolan appare quella di un futuro dominato da un nuovo oscurantismo – argomento di attualità dopo le elezioni americane vinte da creazionisti e negazionisti climatici. Interstellar è un kolossal a misura d’uomo sulla fine del mondo che si addentra ancora una volta nei paradossi spazio-temporali, stavolta quelli della cosmologia della relatività. Uscito da poco anche in Italia ha radicalmente diviso addetti ai lavori e spettatori: chi lo ama, chi lo detesta. Ma una cosa è certa: non lascia indifferenti. Nolan, londinese di nascita vive ormai da tempo a Los Angeles, dove lo incontriamo.

Possiamo definire «Interstellar» il suo primo film di fantascienza «classica»?

Ho cercato di fare un film sull’umanità e credo che molti dei quesiti più interessanti a questo riguardo vengano posti dalla fantascienza, a cominciare dalle domande sull’esistenza di un intelligenza superiore alla nostra. Il valore della fantascienza sta nella speculazione, nell’indagine intellettuale. L’idea che si possa esplorare in un libro o in un film chi siamo immaginando circostanze «parallele», mai realmente esistite ma plausibili. Lo trovo un fertile terreno per lo sviluppo dell’immaginazione.

Quali sono state le sue ispirazioni in materia?

Sono stato molto influenzato dall’era di Spielberg e Lucas, la generazione dei blockbuster di fantascienza con cui siamo cresciuti; ho pensato ad alcuni aspetti di quel filone come l’ottimismo, la speranza che ci può condurre in luoghi insospettati. Pur essendo un film sulla fine del mondo, Interstellar conserva un sentimento positivo, suppone che siamo in grado di esistere anche dopo la fine del mondo, di trovare un nostro posto nell’universo.

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Anche se la sua apocalisse immaginata come un «dust-bowl» ci appare molto verosimile.

Il senso di realtà e di plausibilità è per me ciò che rende un film un’ esperienza entusiasmante. Sono convinto che se si riesce a mettere in relazione un evento fantastico o pauroso a un universo che lo spettatore riconosce come familiare, è possibile creare un’esperienze realmente immersiva. Prima delle riprese ho visto il documentario di Ken Burns sul dust bowl: (The dust bowl, 2012) le immagini erano talmente terrificanti che per non farle apparire irreali le abbiamo dovute in parte moderare. Mi sembrava che ancorare un ipotetico futuro a un evento realmente accaduto in passato – le terribili tempeste di sabbia degli anni ’30 – lo avrebbe reso più credibile.

In fase di preparazione ha visto anche «Uomini Veri» di Philip Kaufman, sulle origini della NASA, e «Dalla terra alla luna» il documentario di Tom Hanks sulle missioni Apollo.

 

Volevo fare riferimento ai cicli della Storia e a come questa viene scritta e riscritta. Quando ero a Hong Kong per girare Il Cavaliere Oscuro con mio fratello siamo andati al cinema a vedere il documentario di Tom Hanks in cui a un certo punto intervistano gli ingegneri NASA sulle ipotesi che lo sbarco sulla luna sia stata solo una messinscena. L’ho trovato terribilmente triste. Ho pensato che avrei dovuto tornarci in Interstellar; lo spirito di intraprendenza di quell’epoca è stato sostituito dal cinismo, al punto che tutto viene considerato un complotto mentre si cerca di riscrivere la Storia. É deprimente e preoccupante.

Anche per questo ha tenuto ad avvalersi della consulenza scientifica di Kip Thorne, astrofisico di Caltech che ha «progettato» il buco nero del film?

Orson Welles diceva che il pubblico è capace di capire qualunque cosa a patto che sia interessato, ovvero che sia emozionalmente partecipe alla trama e ai destini dei personaggi. Perciò mi piace costruire molteplici strati narrativi che possono essere percepiti in modi diversi, o rivisitati trovandovi cose nuove. In Interstellar trattiamo concetti complicati dato che abbiamo cercato di tenere fede ai principi dell’astrofisica, ma in fin dei conti ciò che si racconta è soprattutto la storia di un padre e dei suoi figli.

Tanto rigore per descrivere cosa – la fisica quantistica dell’amore?

Non giungiamo a definirla tale ma certamente utilizziamo concetti al «limite» per esaminare quell’area in cui la scienza – almeno quella «riduttiva», che tende ad esprimere la fenomenologia in numeri e dati – si imbatte nelle emozioni umane e fatica, con quel linguaggio a descriverle. Ritengo che sia una frontiera affascinante ed inevitabile man mano che la scienza si spinge in avanti e tenta di incorporare le forze intangibili che guidano gli esseri umani, invece di negare la loro complessità.

Si dice che le sue storie spesso assomigliano a labirinti.

Le considero semmai geometrie interne ai film. Mi interessano gli schemi e i rapporti fra forme geometriche – elementi che hanno in comune sia l’arte che la scienza. Per me le formule visive e il loro significato sono sempre state affascinanti. Ad esempio ho sempre amato le stampe di Escher o l’illusione ottica della scala «infinita» di Penrose. Le ho utilizzate in Inception ma anche Interstellar deve molto alle circolarità geometriche come la striscia di Moebius. Mi ha sempre appassionato il materiale che incrocia l’arte con la scienza, Interstellar è stata l’occasione per collaborare strettamente con uno scienziato, spiegargli il nostro modo di creare una storia per esplorare un’idea in modo ipotetico, e capire che anche la scienza ha una importante componente «intuitiva». In Escher il pensiero matematico si fonde a quello visivo, è un concetto particolarmente adatto al cinema dove i film dipendono da una struttura interna. Anche il film più convenzionale ruota attorno alla relazione complessa fra il punto di vista del pubblico e quello dei personaggi, e alla manipolazione delle percezioni da parte del regista.