«Come sarai a 64 anni?», chiede Jann Wenner a John Lennon nel dicembre del 1970, durante la celebre intervista poi pubblicata come Lennon Remembers. «Non lo so – rispose Lennon – Spero che saremo una bella coppia di anziani e vivremo al largo della costa irlandese, sfogliando l’album delle nostre follie.» Per quanto la domanda potesse sembrare irresistibile al fondatore della rivista Rolling Stone, era sbagliata in partenza, perché When I’m sixty-four è una canzone di Paul McCartney. In quell’intervista avvelenata del 1970, Paul era il principale bersaglio della sua rabbia.

Nelle prime 30 pagine gliene dice di tutti i colori: che il suo disco solista fa schifo, che i Beatles si sono sciolti perché erano stufi di esser i sidemen di Paul, che Let it be è stato fatto da gente che pensava «Paul è Dio», che la loro collaborazione autoriale finì nel 1962 e che dopo la morte di Brian Epstein Paul aveva assunto un ruolo genitoriale per il quale si aspettava la riconoscenza degli altri tre.

Nell’introduzione all’edizione di Lennon Remembers uscita nel 2000, anche Yoko Ono prova a rispondere alla domanda «Se fosse ancora vivo, che farebbe John oggi?». Un Lennon sessantenne era all’epoca più facile da immaginare del 75enne di oggi, e Yoko dice: «Era un Artista ed era sempre stato innovativo. Gli piaceva sperimentare con i nuovi media, perciò probabilmente gli sarebbe piaciuto internet. Parlava sempre dell’avvento del Villaggio Globale. Sarebbe stato elettrizzato dal fatto che oggi esiste davvero».

Imagine a parte, condannata ormai al ruolo costipato di inno pacifista, con il passare dei decenni è difficile immaginare che Lennon possa essere ancora fonte di ispirazione per chi non è suo coetaneo o non appartenga alle generazioni successive ma limitrofe, ancora cresciute con l’eco del mito dei Beatles.

Allora forse è utile guardarlo dalla prospettiva di un coetaneo in circostanze molto particolari. Ad esempio, con gli occhi di un insegnante di inglese nell’unico paese europeo che nel 1966 era ancora, ormai da quasi trent’anni, sotto un regime fascista: la Spagna, bloccata nella morsa asfissiante e feroce della dittatura franchista.

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La vita è facile a occhi chiusi di David Trueba prende il titolo da un verso di Strawberry Fields Forever ed è ispirato alla storia vera di Juan Carrión, un professore che insegna inglese con i testi dei Beatles.

Nell’autunno di quell’anno approfittò del soggiorno di Lennon in Almeria, durante le riprese di Come vinsi la guerra di Richard Lester, per andare a incontrare il suo idolo, chiedergli di correggere le liriche che lui aveva religiosamente trascritto e di colmare gli spazi vuoti delle parole che non era riuscito a decifrare. Un’esperienza familiare a molti pre-Millennials: lo dimostra la mia copia in vinile di Revolver, la cui busta bianca interna riporta in diligente calligrafia le parole di tutte le canzoni.

Nel ‘66 John Lennon ha 26 anni ed è in piena crisi: non ne può più del gruppo dopo il delirio dei Beatles più famosi di Gesù Cristo, il Ku Klux Klan, Imelda Marcos e via discorrendo. Il gruppo dà l’addio ai tour e lui vuole fare l’attore, così passa nove settimane nella Terra delle Fragole, l’Almeria, dove scrive Strawberry Fields Forever, che registrerà con i Beatles ad Abbey Road nel dicembre dello stesso anno. Lennon fu subito entusiasta del metodo di insegnamento di Carrión. Gli corresse i testi, che il prof trascriveva registrandoli da Radio Luxembourg, e gli promise che sul disco successivo avrebbe fatto stampare le liriche. E così fu, come potete verificare prendendo la vostra copia di Sgt Pepper’s.

La vita è facile a occhi chiusi non è un film sul franchismo, ma su un eroe anonimo che si mette in viaggio, incontra persone che gli cambieranno la vita e con loro assapora brevemente la libertà dal quotidiano, una parentesi di fuga dalle catene dell’ordinario. In quasi due ore non accade molto: è un film lento, vuoto come i deserti dell’Almeria. Ma non è così forse la vita in un paese schiacciato dalla dittatura? Un paese sigillato, dove non accade niente, a cui è precluso ogni progresso ed evoluzione: la dittatura è un eterno fermo immagine, sempre uguale a se stesso. Nonostante la luce abbagliante del sud della Spagna, nel film si avverte una tensione, la sensazione di qualcosa che incombe, una minaccia, una violenza nell’aria. A ciò contribuisce la colonna sonora malinconica ma efficace di Charlie Haden e Pat Metheny (Haden accettò la proposta di Trueba per amore della Spagna, alla cui Guerra Civile aveva dedicato il primo album della Liberation Music Orchestra, ma essendo già malato girò l’incarico al suo «assistente»).

Il film prende la canzone di Lennon e ce la rigira sotto forma di domanda silenziosa: era davvero facile vivere a occhi chiusi sotto la dittatura franchista? Era l’unico modo? Oppure, come dice David Trueba «i veri eroi sociali sono sempre persone comuni capaci di superare aspettativi e limiti», come accade al goffo e occhialuto professore nel finale del film? E se Francisco Franco, piccolo di statura, fosse l’energumeno brutale che, vigliacco come un fascista, bulleggia Juanjo, l’inerme adolescente capellone?

Il film apre con Help e chiude con Strawberry Fields Forever, «le uniche canzoni sincere che ho scritto», dice Lennon a Wenner. Parlano di solitudine, di bisogno di aiuto, dell’essere diverso, o un pazzo o un genio. Il prof è entusiasta, tenero e imbranato come un fan adolescente, e quando lo beccano con una foto erotica nella borsa, si giustifica con la stessa risposta dell’allievo a cui l’ha sequestrata. Non ha figli né fidanzata: come Lennon, «non c’è nessuno sul suo albero». Non è un genio, ma è integro e generoso. Forse cresce proprio dopo aver incontrato il suo idolo, a cui assomiglia anche per gli occhiali che Lennon ha iniziato a portare sul set del film di Lester, nella Terra delle Fragole. Tanto che nel finale dà perfino una lezione all’energumeno, e così facendo apre gli occhi.

Certo i pomodori sono meno poetici e psichedelici delle fragole, ma sono sempre rossi, come il sangue, la passione, l’amore, l’antifascismo.