Ogni tanto, l’infinita crisi del M5S, ininfluente in parlamento e poco visibile nella società, è ravvivata dalle espulsioni di qualche deputato.

Se non ci fossero le risibili consultazioni online sulla sorte dei reprobi, che osano criticare i leader, nessuno parlerebbe più di Grillo e tanto meno di Casaleggio.

Ecco, forse, la vera ragione della stanchezza di Grillo: la noia di chi ha dato vita a un movimento e ora non sa più dove sbattere la testa.

È molto difficile che il M5S si possa riprendere dalla crisi, anche se i sondaggi gli attribuiscono un certo radicamento sociale.

Dopo streaming insultanti o inutili, risultati elettorali deludenti (soprattutto nelle realtà locali), polemiche incessanti tra parlamentari e staff, licenziamenti di comunicatori e altre amenità, il M5S si trova di fronte al solito bivio: o mettersi a far politica e quindi deludere il suo elettorato anti-sistema o continuare con la finta opposizione, le sceneggiate con il bavaglio e tutto il repertorio folcloristico che porterà a un lento ma inevitabile declino. Insomma, o l’assimilazione o l’irrilevanza.

Il fatto è che il M5S si fonda su alcuni equivoci che, a meno di due anni dai trionfi elettorali del 2013, sono venuti clamorosamente alla luce. Il primo è senz’altro una leadership a dir poco impresentabile: un imprenditore New Age, non si sa se più affarista o lunare, e un comico che non fa più ridere, dominato dai suoi mutevoli umori demagogici. Il secondo equivoco è l’assenza di qualsiasi cultura politica. Chi non vuol essere né di destra, né di sinistra, e sceglie il giustizialismo più ovvio, alla fine si condanna a non essere e basta. Il terzo è l’assenza di trasparenza organizzativa del movimento, sostituita dalla mitologia della rete come esclusiva arena democratica.

La verità banale è che la rete, per definizione, è influenzabile e manipolabile. Chi decide di indire i referendum sulle leggi e le consultazioni sulle espulsioni? Ovviamente, i due leader (con i loro staff più o meno segreti). Più che cittadini indipendenti, gli iscritti che votano sul blog di Grillo sembrano ostaggi di un marketing autoritario e impolitico.

Detto questo, il declino del M5S mette un po’ di malinconia e suscita qualche interrogativo. Che Casaleggio, Grillo (con loro yes men parlamentari) finiscano nell’oblio o cerchino di tornare alle loro occupazioni più o meno lucrative non interessa a nessuno. Ma resta il fatto che milioni di persone in buona fede hanno creduto in loro e resteranno inevitabilmente a disposizione della demagogia che avanza, soprattutto a destra.

Il modello di Renzi anestetizza buona parte della società, ma radicalizza tutti coloro che non vogliono identificarsi con il blairismo chiacchierone e pseudo-decisionista del presidente del consiglio. Ed ecco spalancarsi praterie per la Lega, per l’estrema destra, per i movimenti urbani xenofobi, che magari durano lo spazio di pochi giorni, come i forconi di qualche anno fa, ma sono infinitamente riproducibili in altre forme, sintomi di uno sfascio sociale senza fine.

Il paradosso è che a raccogliere tutto questo disagio, questa voglia di farla finita con le solite facce, questa protesta – in breve, un confuso ma potente appello al cambiamento che da anni sale dalla società – non è la sinistra, che sembra essersi rifugiata nell’astensionismo, nella ripetizione di vecchi slogan o nella riproposizione di vecchie alleanze, già fallite e consegnate alla storia minore.

E allora, per comprendere perché un fenomeno come il grillismo è potuto esplodere e implodere nel giro di pochi mesi, bisognerebbe riflettere, a sinistra, sulle idee di leadership, di movimento, di composizione sociale, di lavoro, di Europa. È questo il lavoro che ci attende, e non il ritorno in scena di un’accozzaglia di leader bolliti da anni o di giovani leoni irreparabilmente invecchiati.