Con la vicenda di Roma il Movimento 5 Stelle è entrato nell’occhio del ciclone. Per la prima volta si palesa in maniera tanto limpida non come una medicina ma come una manifestazione della malattia. Di qui lo sgomento di chi lo ha pensato come un virgulto da proteggere perché si irrobustisca fino a estirpare da solo la mala pianta della politica.

Come Marco Travaglio, che ha investito in questa impresa la sua scommessa di rigenerazione totale, e ora – in un impeto di angoscia – invoca il napalm per distruggere l’intera classe dirigente. Senza sapere chi e come saprà ricostruirla.

Quello di Roma non è un incidente di percorso. È la rivelazione dei gravi limiti strutturali dei 5 Stelle. Solo affrontando di petto questi limiti, possiamo sperare che il movimento metta le sue energie al servizio della democrazia anziché contribuire all’aggravamento della sua crisi.

Prima evidenza: la selezione della classe dirigente, in particolare degli amministratori. Chi ha scelto la candidata Raggi? I meccanismi sono opachi. Quanto hanno pesato i voti dei militanti? Quale discussione di merito sul prestigio, le competenze, le attitudini? Nessuno lo sa. Tutto lascia intendere che su questo come sugli altri problemi, l’ultima parola spetta ai capi e padroni: quello palese, il demiurgo Grillo, e quello nell’ombra, Davide Casaleggio & azienda.

Secondo problema: la responsabilità degli eletti. A chi rispondono i sindaci? Forse ai loro elettori, o ai cittadini tutti? Non sembra proprio questo il caso. Del resto Raggi lo aveva detto prima: mi dimetterò se Beppe Grillo me lo chiederà. Come nella società feudale, si risponde a chi ci ha dato l’investitura. Ora Grillo le ha chiesto, anzi le ha ordinato, non di dimettersi, ma di licenziare questo e quello: e Virginia obbedisce. Lei che ha avuto il voto di centinaia di migliaia di romani, agisce non secondo coscienza, ma perché glielo ordina un comico che abita nelle alture di Genova e che può revocarle il marchio di fabbrica.

Infine: trasparenza, democrazia interna, formazione della volontà politica. Oggi apprendiamo che c’è stato un dibattito, anzi uno scontro feroce, sulla scelta di Raggi e sulle sue nomine, scontro che dura tuttora. Ma chi ci ha informato su questo dibattito? Dove si è svolto, chi vi ha preso parte? Tutto quel che sappiamo lo dobbiamo alle indiscrezioni giornalistiche, alle soffiate, alle battute, alla disposizione dei leader sui palchi. Nessun organo deputato, nessuna diretta streaming, nessuna diretta radiofonica (come avviene nel caso delle assemblee nazionali – absit iniuria – del Pd, grazie alla benemerita radio radicale) ci ha permesso di farci la nostra idea sull’interessante discussione. Nessuna votazione palese ne ha sancito gli esiti. Nessun comunicato ne ha trasmesso il significato. Come nel mondo degli dei omerici, solo una voce tonante tra le nuvole o uno strale infuocato arrivano dall’alto a risolvere i conflitti annientando i reprobi.

La vera questione sta qua. Nella setta degli onesti c’è un madornale problema di democrazia. Il movimento è chiuso in se stesso perché pensa se stesso come una forza salvifica che deve proteggersi dal mondo esterno, rimanere incontaminato fino alla palingenesi totale che coinciderà con la presa del potere. Ogni partito o movimento non appartiene solo ai suoi militanti, ma è un po’ di tutti, perché può arricchire la democrazia o deteriorarla. Lo dice la Costituzione, che i 5Stelle hanno difeso recentemente con grande impegno: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art.49). Con metodo democratico.

L’Italia non è mai davvero uscita dalla crisi politica degli anni Novanta. Crisi di rappresentanza, crisi di democrazia, crisi dei partiti. Dapprima l’imprenditore con amici e dipendenti mafiosi, proprietario di mezzo sistema televisivo e inseguito da processi per diversi reati gravi, ha confiscato la democrazia cercando di piegare lo Stato ai suoi interessi personali. La sua carta vincente fu l’antipolitica: io sono uno di voi, uno che conosce la vita della gente, non uno abituato ai trucchi della politica. Numerose formazioni si sono avvicendate poi, con risultato più effimero, battendo su questo tasto.

Dopo un esordio promettente, Grillo ha costruito intorno a questo tema il suo successo: raderemo al suolo la vecchia politica. Quello a cui pensa è una democrazia senza partiti, a presa istantanea. Per questo ha costruito un movimento di fedeli che reclama la democrazia all’esterno ma pratica all’interno la segretezza e l’obbedienza al capo. Da qui nasce il ginepraio di Roma: un nido di vipere con un domatore che le tiene a bada. Bravi ragazzi, certo: ma non sarà da qui che potrà riprendere fiato la democrazia italiana. Almeno finché le loro energie rimarranno imbrigliate in un involucro senza trasparenza, dove il «metodo democratico» non sta di casa.