Nelle settimane che hanno preceduto il voto di domenica, il manifesto ha ospitato interventi che cercavano di fornire ai naufraghi della sinistra elementi di giudizio in vista dei ballottaggi. Stretta tra opzioni non gradite, fra Pd e M5S soprattutto, ma non solo, questa popolazione derelitta provava a capire dove si nascondesse il male minore.

Oggi sappiamo che ha scelto o di astenersi o di votare, a Roma e Torino, le candidate del M5S. Laddove, come a Bologna e Milano, ha scelto di sostenere i candidati Pd, ha espresso, fuori da ogni logica di alleanza, un voto contro il centro-destra.

Dunque, la discussione sviluppatasi a sinistra fino a pochi giorni dal voto appare di colpo invecchiata. In un ventaglio di opinioni che appariva, a prima vista, omogeneo, nel segno del «tutti contro Renzi», convivevano, come ricordiamo bene, idee diverse sia sui ballottaggi in quanto tali, sia sul modo di connettere questa contingenza con il tema generale della crisi della sinistra, fotografata per l’ennesima volta da deludenti risultati elettorali. E la divaricazione aveva sempre lo stesso merito: il Pd, e se e come restaurare il centro-sinistra archiviato dalla gerenza renziana.

In realtà non è la novità emersa dal voto di domenica, per quanto clamorosa possa apparire, a determinare il mutamento di prospettiva che dovrebbe essere fatto proprio da tutti coloro che sono interessati alle sorti del campo della «sinistra». Nell’incapacità di sciogliere alcuni nodi strategici, e di liberare la discussione dal tormentone del rapporto con il Pd, è insita una resistenza che viene da lontano (e su cui converrebbe riflettere) a fare i conti con alcuni fattori strutturali che è utile delineare rapidamente.

Alcuni elementari dati di realtà sono tutti italiani.

  1. il centro-sinistra è uscito sconfitto dalle urne nel 2013;
  2. Renzi, e con lui un precisa linea politica, ha nettamente e democraticamente prevalso nel corpo degli elettori e degli iscritti al Pd, dando seguito, peraltro, a un indirizzo che coincide con lo stesso atto di nascita politico di quel partito (la cosiddetta vocazione maggioritaria);
  3. il centro-sinistra, nelle sue varie incarnazioni (Ulivi, Unioni…) non si è mai consolidato come compagine sufficientemente omogenea, non ha mai oltrepassato lo status di coalizione resa necessaria dalla legge elettorale; non ha mai vinto davvero una competizione elettorale (il pareggio del 2006…) , se non quando il centro-destra si è presentato diviso.

(Rispetto a tutto questo, è assai difficile immaginare che il voto di Cagliari rappresenti, oggi, una sorta di segnale in controtendenza…).

Queste considerazioni a scala domestica appaiono un po’ scontate, anche se bastano probabilmente a suscitare una domanda radicale: è mai esistito il centro-sinistra oggetto di diffusa nostalgia? Assumono un senso per nulla scontato se invece le inquadriamo in un più denso contesto «internazionale». Accadimenti politici e sociali movimentano, in questi ultimissimi anni, e mesi, molti paesi europei, e gli Usa persino. Sono di natura molto diversa, ma appaiono attraversati da un filo evidente. In Grecia, Spagna , Gran Bretagna, Francia, Usa prendono forma partiti, aree di partito, forze sociali che contendono ai soggetti tradizionali della sinistra, ai partiti “istituzionali” a sigla socialista, socialdemocratica e laburista, non già la leadership di uno schieramento elettorale, ma l’intero spazio della sinistra recuperata a effettiva vita politica.

Di più: si delinea , nei processi più recenti, una vera e propria competizione per l’egemonia tra orientamenti in apparenza inconciliabili. Il successo di Syriza in Grecia (prima delle prove tremende cui è stato sottoposto il governo Tzipras, e, beninteso, degli errori di quest’ultimo), la crescita impetuosa di Podemos in Spagna e l’incredibile affermazione di Jeremy Corbyn nel Labour Party, la prova di Bernie Sanders negli Usa e le lotte che scuotono la Francia da alcuni mesi: ciò che accomuna tutti questi diversi fenomeni, non ascrivibili unicamente né a logiche schematicamente politico-partitiche né a pure dinamiche di «movimento», è il fatto che si producano contro il Pasok e il Psoe, contro la nomenklatura blairiana del Labour, in polemica aperta con l’establishment del Partito democratico americano, in conflitto durissimo con il governo «socialista» di Hollande e Valls. In altre parole, nella lotta per la vita queste nuove esperienze politiche hanno come principali e determinati avversari, disposti a quasi tutto, proprio gli eredi del movimento operaio novecentesco, o in ogni caso (vedi gli Usa) il titolare «istituzionale» del campo progressista e di «sinistra».

Si tratta di un passaggio d’epoca che ha bisogno ancora di molta analisi. Non è impossibile cercare di capire da dove derivi questo conflitto, e per quali vie le forze che provengono dalla storia novecentesca del movimento operaio abbiano perso, per una parte larga dell’opinione pubblica, quasi ogni credibilità come soggetti riformatori (anche solo del più moderato e circospetto dei riformismi). La semplice domanda che qui va posta con nettezza è pertanto la seguente: per quali ragioni l’Italia dovrebbe costituire un’eccezione in un siffatto panorama? I successi ripetuti del M5S, insieme con il consolidarsi di un astensionismo di massa, non confermano forse che anche in Italia si è consumata una rottura tra una parte importante del cosiddetto «popolo di sinistra» e l’erede (putativo) di alcune componenti della tradizione antifascista italiana?

Così fosse, piuttosto che rimanere bloccati al dilemma centro-sinistra sì/centro-sinistra no, occorrerebbe concentrarsi su come riempire il vuoto che si è creato, prima che il consenso alla contraddittoria proposta del M5S si consolidi ulteriormente; occorrerebbe dunque capire cosa manca perché anche in Italia, abitata, in un tempo che ci appare lontanissimo, da una sinistra molto autorevole e molto radicata, possa crescere un movimento politico all’altezza delle crisi di questo inizio secolo.