Yindao, il termine cinese che indica la vagina, significa letteralmente «via oscura, via in ombra» o, se si indugia sul valore filosofico dei caratteri dao e yin, «via dello yin», del «principio femminile, passivo, recettivo, buio e morbido, correlato alla luna, all’acqua» che governa le cose umane nella sua complementare armonia con lo yang. È questo parallelo tra l’origine e la sussistenza del cosmo e il corpo femminile ciò che sta alla base del pensiero daoista. Su questa terminologia mistica, sul potenziale femminino, sulla forza oscura e demiurgica, Ma Jian fonda il suo nuovo j’accuse al regime cinese, «dinastia depravata», colpevole, nella sua interpretazione autoritaria delle politiche demografiche e di sviluppo economico, di un blasfemo squilibrio dello yin. Nel titolo del suo ultimo romanzo La via oscura (Yin zhi dao) appena uscito da Feltrinelli (traduzione di Katia Bagnoli, pp. 393, euro 19,00) l’inserimento della particella zhi costruisce un potente doppio senso, che allude tanto alla dimensione riproduttiva femminile quanto al principio cosmogonico. Per volere dell’autore, la traduzione è tratta dalla versione inglese curata dalla moglie, Flora Drew, e non dall’originale cinese, apparso solo a Taiwan nel 2012: uno dei tanti paradossi in cui si muove Ma Jian, da anni esule volontario a Londra e dissidente, ma solo parzialmente, visto che torna regolarmente in Cina, pur essendo noto per la sua intransigenza contro il governo.

A differenza di quanto avveniva nelle sue opere precedenti, tuttavia, qui l’invettiva politica si innalza a una ben più ampia e umana riflessione sugli sfregi del potere, non solo politico ed economico, ma anche culturale, e si estende al corpo della donna e al corpo sociale, fornendo una prova inattesa e toccante di empatia con alcuni temi femministi. La vicenda on the road di Meili, protagonista assoluta del romanzo, tocca tutte le manipolazioni violente inflitte in nome dello sviluppo e del profitto alla natura (e soprattutto all’acqua, vivificante elemento yin). Giovane contadina in fuga con il marito e la figlia perché in attesa di un secondo bambino, illegale stando alle direttive del governo, Meili scopre, suo malgrado, di non vivere nel migliore dei mondi possibili. Il suo è un viaggio angoscioso al limite della sopravvivenza, perseguitata com’è dalle feroci campagne per provocare aborti forzati nel suo villaggio di Nuwa (il nome fa esplicito riferimento alla dea che nel mito antico presiede alla genesi dell’umanità).

L’imprigionamento coatto della forza oscura e vitale che nasce dal corpo femminile si rispecchia metaforicamente nell’imbrigliamento brutale delle acque, e dunque nella violazione ambientale: sono modifiche arroganti quelle che vengono imposte tanto alla geografia del corpo femminile quanto a quella del paesaggio, nella fattispecie le Tre Gole lungo il fiume Yangtze, dove è stata costruita una possente diga che ha cancellato interi villaggi e scenari antichi, in nome del fabbisogno energetico, ma anche di una autocelebrativa hybris antropocentrica.

La narrazione segue la discesa dei tre fuggiaschi lungo il fiume, spazio reale e metonimico dei mali profondi del paese, canale oscuro di vita e di morte, come il «corridoio carnoso» che lo spirito-bambino, lungamente atteso, risale per ben tre volte senza mai incarnarsi. La famigliola condivide il suo destino con esseri deprivati di ogni diritto, i cosiddetti «tre no» (no documenti, no casa, no stipendio), sottoposti perciò a costanti soprusi: al centro di questa umanità «minore» si staglia – simbolicamente e concretamente – il corpo femminile, icastica immagine di una Cina soggiacente a molteplici abusi in virtù dei due dogmi della Repubblica popolare: progresso e controllo.

Allo stesso modo, emblema della violenza perpetrata dalla classe dirigente comunista era stato, nel precedente romanzo di Ma Jian, Pechino è in coma il corpo inerte di un sopravvissuto alla strage di Tian’an men. Tra quelle pagine, lo stato vegetativo dello studente ferito durante la repressione si faceva veicolo di riflessione spirituale sull’obliterata memoria della storia recente, mentre qui – nella vicenda dolorosa di Meili – è lo spirito-bambino a fare da contrappunto focale. Il suo punto di vista è quello di un osservatore esterno, che tramite il corpo della madre, «prigione di carne in cui verrebbe condannato ad un’altra esecuzione», affianca il suo sguardo cieco alla narrazione.

Come una sorta di Candide, Meili compie un Bildung di sofferenza e violazione; ma il suo è anche un percorso morale e cognitivo: «Aveva scoperto che le donne non sono padrone del proprio corpo: utero e genitali sono campi di battaglia di cui i mariti e lo stato si contendono il controllo; territori che i coniugi invadono per ricavarne piacere sessuale e per generare figli maschi, e che lo stato invade, controlla, monitora e raschia per affermare il suo potere e infondere una dilagante paura.»

Nel romanzo rivive l’«ossessione per la Cina» che ha caratterizzato tanta letteratura del Novecento, da Lu Xun a Mo Yan, una scrittura focalizzata sulla denuncia della tirannia politica e dell’ingiustizia sociale, ma anche su una spietata autocritica culturale. Ma Jian condanna senza alibi il retaggio misogino della tradizione confuciana, si ribella all’ossessione del figlio maschio, qui trasferita nel personaggio di Kong, il marito di Meili, settantaseiesimo discendente di Kong-zi (Confucio) che, pur di ottenere l’erede, non esita a esporre la moglie alla violenza dell’aborto coatto, all’abbandono di una neonata deforme, all’ennesima auspicata e temuta gravidanza. La donna fugge dal governo punitivo e avido, ma anche dal marito, il maestro di paese che si rende ostinato esecutore di un’arcaica visione maschilista, alternando la declamazione di eteree poesie Tang al consumo insensibile del corpo di Meili.Il linguaggio esasperato, sensoriale, scorre scioccante e sarcastico, increspato a tratti da onde di poetica e femminile dolcezza che sono intonate alle acque del fiume, l’opaco specchio di tanto orrore che conduce a un unico grembo-discarica dove si riuniscono cadaveri, rifiuti, residui, sentimenti e valori. Eppure, nel desolato perimetro di una Cina fosca e in lotta con se stessa, Meili emerge fresca e purificante nella sua ingenua ricerca della felicità: una novella Candide, appunto, intenta a costruire il proprio simulacro di progresso nella fabbrica-baraccopoli diffusa della Cina fluviale. Con la sua goffa, coraggiosa aspirazione alla normalità, che non è ancora benessere, con la sua determinazione a riappropriarsi del suo corpo e con esso del suo destino, Meili riscatta le migliaia di diseredati incontrati ai torbidi limiti della sua esistenza. La barca sulla quale la famiglia in fuga vive per anni è figurazione della instabilità e della sociale liquidità moderna, e a bordo di questa imbarcazione, in un mistico parto finale, si chiude il viaggio di Meili.

Né nuovo né raro, il tema della maternità negata è stato affrontato anche di recente da Li Er, con ironico realismo rurale in Ciliegie sul melograno, e da Mo Yan, nell’epopea della ginecologa descritta tra le pagine di Le rane; ma è a un’autrice precedente che fanno pensare le descrizioni espressionistiche e i toni taglienti, la prospettiva visceralmente femminile di Ma Jian. Il livido sussultare di ventri espropriati, l’ascolto delle mille sensazioni corporee, il senso di primordiale svilimento a preda umana sono accesi della stessa furia e dalla stessa tenerezza per il corpo contadino reificato che anima le pagine di Xiao Hong, il cui più noto romanzo, Il campo della vita e della morte (del 1935) allude non solo alla guerra sino-giapponese in Manciuria, ma soprattutto al corpo della donna e al mistero violento racchiuso nella maternità. Nonostante lo squallore materiale e la corruzione di oggetti e persone, la negazione di valori antichi come pietà filiale e culto dei morti, nel romanzo di Ma Jian alita un soffio di spiritualità, forse il qi che è principio di vita e ragione di speranza nella disperazione.