Ottobre 1874. Mentre la campagna per le elezioni parlamentari è in pieno svolgimento, a Ravenna – notoriamente un centro dell’attivismo politico radicale, dove poco tempo prima il Procuratore generale e il Prefetto erano stati assassinati – l’attenzione è tutta concentrata sul processo alla «Setta degli accoltellatori».
La «Setta» era stata costituita per organizzare una serie di omicidi politici in nome di Garibaldi, ma aveva assunto ben presto il profilo di una società dedita alla violenza criminale pura e semplice: questo, almeno, era ciò che le autorità pubbliche affermavano. In verità, gli elementi dell’accusa risultavano molto fragili, basati com’erano su un unico testimone dal torbido passato, generosamente remunerato per il contributo recato alla costruzione delle prove. In ogni modo, gli «accoltellatori» vennero condannati. L’opinione del questore era lapidaria: «È cosa fuori questione e certissima che Malfattori e Internazionalisti sono la stessa e identica cosa».

Il caso del processo di Ravenna non era isolato. Era normale che la polizia evocasse lo spettro di sette dedite al malaffare al fine di criminalizzare l’opposizione politica radicale: una strategia che caratterizzò le pratiche poliziesche nei primi due decenni di vita del nuovo Stato unitario. E a cui corrispose un dibattito nazionale ossessivamente centrato su cospirazioni, sette, «società di pugnalatori», «Frammassoni del delitto», e altro ancora. A Napoli e in Sicilia, poi, quel dibattito lasciò un’eredità particolarmente avvelenata: la «camorra» e la «mafia».

La mala setta Alle origini di mafia e camorra, 1859-1878 (Einaudi, pp. 448, euro 35.00) è un libro importante perché riesce a mettere in luce, con una straordinaria ricchezza di dettagli, la formazione e i diversi livelli di quel dibattito e della prassi poliziesca che lo informava. Sarà bene chiarire subito, però, che la proposta di Francesco Benigno non consiste nella riesumazione della vecchia tesi secondo cui la legislazione dell’Italia liberale contro le associazioni criminali era uno strumento di repressione politica; il ragionamento si dipana in modo ben più sofisticato. Torna confermato, in ogni caso, che l’ordine pubblico era uno dei terreni principali di costruzione del destino politico della nazione. La nuova Italia era una creatura fragile, condizionata dalle mosse delle maggiori potenze e internamente divisa. I seguaci di Garibaldi e di Mazzini nutrivano sentimenti ribelli e un culto di Roma incompatibile con le leggi della diplomazia. La situazione era resa ancora più delicata e complessa dal fatto che, in Sicilia e nel Sud, era frequente che nel fermento risorgimentale risultassero attivi uomini violenti e senza scrupoli, tanto come spie borboniche che come patrioti cospiratori. Ma lo stesso accadeva in altre parti della penisola: la linea che divideva politica e criminalità era confusa ovunque.

Ovunque, attraverso cioè i ranghi stessi della Pubblica sicurezza. Nel concreto processo di formazione delle istituzioni del nuovo Stato, i responsabili dell’ordine pubblico reclutavano spesso ufficiali e informatori nel mondo, quello delle cosiddette ‘classi pericolose’, che era loro compito controllare. E molti dei reclutati non abbandonavano, o non del tutto, il loro stile di vita e la propensione al crimine.

Questori e ispettori, dal canto loro, adottavano tutto un ventaglio di tattiche ben poco corrette, dal ricatto all’eliminazione extragiudiziale, dal terrorismo alla provocazione dei moti di piazza; ed era pure del tutto consueto etichettare democratici e repubblicani come dei violenti delinquenti. La storia che Benigno racconta si sviluppa, così, all’interno di un labirinto opaco popolato da poliziotti, malviventi, sovversivi, traditori, agenti provocatori, giornalisti prezzolati, spie, agitatori, ricattatori e terroristi. E, naturalmente da «mafiosi» e «camorristi».

Il boss Gerlando Alberti, più o meno alla fine degli anni settanta, avrebbe detto durante un interrogatorio: «Mafia? E cos’è? Un tipo di formaggio?». La battuta, forse apocrifa, mostra tutta l’arroganza di un importante capo-mafia, ma anche la consapevolezza della confusione che, ancora in quegli anni, circondava la parola, e che, così come avevano fatto generazioni di mafiosi prima di lui, ovviamente egli aveva tutto l’interesse a alimentare. Oggi il clima è cambiato. Nel 2008 all’età di ottant’anni Alberti è stato arrestato per l’ennesima volta, nel corso dell’Operazione Perseo. Con diversi altri importanti boss stava cercando di ricostituire a Palermo il vertice di Cosa nostra, ossia la Commissione, o «Cupola» come spesso viene detta. Chiunque può adesso, su Youtube, grazie ai carabinieri, osservare i capimafia che discutono i loro piani.

La carriera di Gerlando Alberti si è sviluppata in un periodo – diversi decenni – nel quale in Italia è stato pagato un alto prezzo in vite umane per ottenere la chiarezza che caratterizza oggi il discorso sul crimine organizzato. Un momento cruciale fu certamente il maxi-processo di Palermo del 1986-87, nel quale per la prima volta cominciò a prendere forma, sia nell’opinione pubblica che nei soggetti istituzionali, un’immagine chiara della mafia siciliana; e nel quale venne provata l’esistenza della Cupola. Più o meno contemporaneamente al primo maxi-processo, emergeva un nuovo orientamento storiografico che provava a decifrare il problema delle origini e dello sviluppo del crimine organizzato in Italia. Date le circostanze, quella storiografia aveva delle priorità. Riconosceva, certo, l’incertezza e anche la contraddittorietà che accompagnavano l’uso di parole come «mafia» e «camorra»; il suo principale obiettivo era però rintracciare, al di là delle inevitabili distorsioni, i segni attraverso i quali dare un volto credibile ai criminali che stavano dietro quelle stesse parole.

La ricostruzione che è emersa da quell’importante stagione di studi gode di un significativo grado di consenso. Detto in breve, questa storia spiega le origini della mafia e della camorra come un sotto-prodotto del Risorgimento. Patrioti cospiratori danno vita a società segrete, organizzate assumendo spesso come modello la massoneria; queste associazioni reclutano, nella causa antiborbonica, anche soggetti del sottobosco criminale; i quali, a loro volta, fanno propri i metodi, e i vantaggi, dell’associazione segreta a fini criminali, potendo diventare, nel frattempo, interlocutori della classe dirigente italiana in formazione.
La scommessa di Benigno è di adottare un orientamento storiografico speculare a quello corrente: il suo «storicismo integrale» non si avvale della chiarezza fornita dallo sguardo retrospettivo, quello che può venire solo dall’oggi; invita invece i lettori a «immergersi nella confusione dei discorsi d’epoca»: un’epoca che non disponeva di inchieste come quelle condotte da Falcone e Borsellino. È un metodo che richiede grande rigore; Benigno lo padroneggia riuscendo a tirare fuori dal groviglio delle testimonianze una narrazione lineare e avvincente. Il metodo rivela chiaramente i suoi vantaggi analitici allorché consente all’autore di mettere in discussione le interpretazioni correnti di una parte della documentazione fondamentale della storia della mafia e della camorra. Nuovo è anche l’avvicinamento, compiutamente nazionale, alla storia del crimine organizzato. Come dimostra il caso della «Setta degli accoltellatori» di Ravenna, il «complottismo autoritario» della Destra storica, la sua ossessione per le associazioni criminali, non avevano confini preventivi, non si rivolgevano cioè solo alle regioni oggi indicate come ad alta densità mafiosa.

Alcune conclusioni di questo libro sono molto chiare. Benigno non risparmia l’uso delle virgolette nella ricostruzione della prima fase della storia della «mafia» e della «camorra»: questo perché crede che, dietro i nomi (nuovi, peraltro, nella lingua degli anni sessanta e settanta dell’Ottocento) sia impossibile distinguere la fisionomia del tipo di soggettività criminale propria del nostro tempo. Piuttosto, le fonti mostrano, molto più chiaramente, altri elementi: innanzitutto una cultura fortemente influenzata dal Romanticismo e dalle sue fantasmagoriche rappresentazioni dei bassifondi urbani, orientata a scoprire gli equivalenti italiani delle società segrete e delle menti criminali che popolavano un certo tipo di letteratura, da Balzac in giù; in secondo luogo, la tendenza da parte del governo a evocare lo spettro di «maffiosi» e «camorristi» nei momenti di maggiore tensione politica, ben frequenti dopo l’unificazione: dai fatti di Aspromonte nel 1862 alla Comune di Parigi nel 1871; in terzo luogo, una generazione di ufficiali governativi – Silvio Spaventa ne è una delle incarnazioni emblematiche – del tutto privi di scrupoli nel manipolare e nell’ingigantire, a vantaggio dei propri referenti politici, il richiamo a «mafia» e «camorra».
Immergendosi nella confusione dei discorsi, Benigno punta così a rivedere il modo corrente di intendere le origini del problema della criminalità organizzata in Italia. Si tratta di una sfida seria, e feconda, ed è proprio su questo punto, credo, che il libro susciterà discussione. L’autore si mostra infatti poco interessato a promuovere una narrazione alternativa a quella della storiografia esistente sulla mafia e sulla camorra: fedele alle sue premesse teoriche (e al suo «storicismo integrale»), si sforza di inquadrare il problema delle origini della mafia non separandolo dai discorsi che le fonti restituiscono e dalla matassa delle rappresentazioni.

Ho l’impressione che, in alcuni casi, sarebbe possibile leggere le sue stesse fonti in un modo diverso, forse più semplice, anche se meno elegante: immaginando, cioè, che dietro la confusione dei discorsi esistessero davvero delle organizzazioni criminali (o embrioni di esse), ma che all’epoca non era sempre nell’interesse della polizia distinguere realtà e rappresentazioni, e che il problema che queste organizzazioni rappresentavano aveva un rilievo molto minore di quello costituito dal reprimere la sovversione.

La prospettiva tracciata dal libro lascia così aperte alcune questioni importanti. La mafia in quanto organizzazione non è tanto, come abbiamo ritenuto finora, un sotto-prodotto del Risorgimento quanto invece un sotto-prodotto delle operazioni di polizia dell’Italia liberale? Le mafie cominciano a esistere veramente (come organizzazioni) solo nel Novecento, o nel secondo dopoguerra – come Benigno sembra suggerire – o assumono, in tempi più recenti, solo una forma più netta e gerarchizzata?

La chiarezza dell’argomentare risente, rispetto a queste questioni, dell’insofferenza per ciò che viene definito come «centralizzazione romanzesca»; ma ciò che ne risulta è una sottovalutazione delle notizie e delle immagini delle organizzazioni criminali nel XIX secolo che pure emergono dalle fonti. Eppure è Benigno stesso, descrivendo i primi resoconti sulla mafia e sulla camorra, a sollecitare l’interrogativo che molti lettori spontaneamente si porranno: alla fine, c’è qualche elemento di verità in ciò che le fonti dicono sui network criminali? Non credo che si tratti di una questione ingenua: non è segno di debole storicismo riconoscere che nel passato ci si avvicinava in gradi diversi alla verità, e che variabili erano le soglie della percezione della realtà. Non è sufficiente, insomma, dire che «il crimine risulta in pratica indistinguibile dalla sua rappresentazione».

Benigno, peraltro, sembra credere che alcune fonti fossero più o meno verosimili. Mi sembra accettare, per esempio, che un certo tipo di camorra esistesse nel sistema carcerario. E lui stesso sarebbe d’accordo nel riconoscere che quest’ultimo non era affatto un mondo ermeticamente separato dall’esterno. Soprattutto sembra accogliere la tesi che per molte figure l’«apprendistato all’organizzazione del crimine» avviene attraverso l’esperienza delle cospirazioni risorgimentali. Tuttavia tali figure rimangono esterne al suo campo di indagine. È un compito impossibile quello di cercare di ricostruire meglio le loro attività e le loro relazioni?
Ora, questi rilievi nulla tolgono all’importanza della Mala setta, anzi sono sollecitati dalla stessa lettura di questo libro che è uno di quegli esempi storiografici capaci di spingere chi studia a tornare in archivio, ma che parlano direttamente anche ai non specialisti (cosa che, mi sembra di poter dire, non capita spesso in Italia), costringendo tutti a rivedere le proprie certezze.