Gli arrestati sono 37, gli indagati 40, ma il conto potrebbe lievitare ulteriormente nei prossimi giorni. Sono nomi pesanti, sia quelli del «mondo di sopra», a partire dall’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, indagato, sia quelli del «mondo di sotto», il sottobosco criminale della capitale, del quale fanno parte Massimo Carminati, arrestato, e Gennaro Mokbel, per il quale la gip Flavia Costantini non ha convalidato la richiesta di arresto.

Il copyright delle definizioni di cui sopra, il «mondo di sopra» e quello di «sotto», è dello stesso Carminati. Le aveva usate nel corso di una conversazione intercettata che ha dato il nome all’inchiesta: «Mondo di Mezzo». Quello in cui si incontrano i colletti bianchi, gli uomini del potere a Roma, e i malavitosi che si sono fatti le ossa sulla strada, sulla piazza già ai tempi lontani della banda della Magliana. Tra i primi ci sono l’ex sindaco Alemanno, il suo capo della segreteria Antonio Lucarelli, Luca Gramazio, ex consigliere comunale e oggi regionale, Luca Odevaine, ex capo della segreteria del sindaco Veltroni, oggi responsabile dell’accoglienza per i richiedenti asilo, Franco Panzironi, ex ad dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, Riccardo Mancini, ex ad di Eur spa, i “colletti bianchi” dell’era Alemanno. Tra i secondi lo stesso Carminati, indicato dagli inquirenti come capo dell’organizzazione, Ernesto Diotallevi, un pezzo da novanta della criminalità romana da decenni, Giovanni De Carlo, suo erede, il già ricordato Mokbel.

A tutti è contestata l’associazione mafiosa ex 416bis. Un’imputazione discutibile, e gli stessi inquirenti se ne rendono probabilmente conto, tanto che nell’ordinanza di arresto dissertano a lungo e dottamente per giustificare l’addebito. Agli arrestati e agli indagati, ha chiarito il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, non vengono accreditati rapporti di complicità con la criminalità organizzata, con mafia, camorra e ‘ndrangheta. Neppure la struttura organizzativa è davvero affine a quelle mafiose, impossibile farlo in una città come Roma dove l’organizzazione deve invece essere «reticolare», meno disciplinata e verticistica, e l’uso della violenza è limitato.

Di mafia, insistono tuttavia i magistrati, si deve ugualmente parlare, perché in quella che viene definita «Mafia Capitale» era stato adottato il metodo mafioso, consistente nell’uso «della forza d’intimidazione del vincolo associativo» e nelle «condizioni di assoggettamento e di omertà di cui gli associati si avvalgono». Il dna propriamente mafioso sarebbe poi garantito dal fatto che, a differenza delle cosiddette «nuove mafie», l’autorità e la capacità di intimidazione del gruppo sarebbero radicati nel passato, nella derivazione dei suoi capi dalla Banda della Magliana e dai «fasciocriminali».
Sin dalla notizia degli arresti, ieri, si è parlato di «criminalità nera», in parte perché capo della banda sarebbe appunto «il Nero», come Gianfranco De Cataldo aveva ribattezzato nel suo fortunatissimo Romanzo criminale Massimo Carminati. Ieri tutti i media, riprendendo del resto l’ordinanza, lo hanno definito «ex Nar». Per la verità dei Nar Carminati non ha mai fatto parte, ma neofascista e amico sia di molti militanti dei Nar, oltre che vicinissimo alla Magliana, lo era davvero.

In realtà nell’inchiesta sono coinvolti un po’ tutti: ci sono ex brigatisti come Emanuela Bugitti, esponenti di spicco di An e poi del Pdl. Ma anche del Pd come Odevaine, il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti e l’assessore alla casa Daniele Ozzimo (questi ultimi due si sono dimessi dicendosi estranei ai fatti) e il consigliere regionale Eugenio Patanè.

Lo stesso Buzzi, presidente della potentissima cooperativa «29 giugno», l’uomo che dalle indagini risulterebbe il principale complice di Carminati, è un ex detenuto comune politicizzatosi in carcere, ma sul fronte sinistro. Una banda più arcobaleno che nera, da questo punto di vista.
Invece l’etichetta nera funziona lo stesso: il momento di snodo, quello che avrebbe permesso al gruppo di spiccare il volo, sono stati gli anni dell’amministrazione Alemanno. Che Carminati e complici abbiano approfittato della ghiotta occasione offerta dalla collocazione in posizione di vertice, in quegli anni, di parecchi esponenti della destra neofascista anni ’70 e ’80, come gli stessi manager Mancini e Panzironi, appare evidente. Per questo Pignatone ha dichiarato senza perifrasi che «alcuni uomini vicini all’ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell’organizzazione mafiosa». Però ha anche aggiunto che «con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato, ma Carminati e Buzzi erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni».

Nello specifico, i reati contestati a vario titolo agli indagati sono di diverso tipo. Tra gli altri, estorsione, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio. Ci sono crimini tipicamente «di strada», come l’usura e il recupero crediti con le cattive. Ci sono faccende di sapore squisitamente tangentaro, come l’indirizzo degli appalti in cambio di tangenti ma anche verso aziende direttamente controllate dall’organizzazione, anche attraverso i classici «prestanome».
Le due fasi sembrano però cronologicamente distinte. Partito dall’usura e dai pestaggi per recuperare i crediti, spesso in conto terzi e solo per confermare la propria autorità, il gruppo sembra aver poi aver immensamente ampliato il suo spettro d’azione entrando alla grande nel giro degli appalti di ogni tipo proprio in virtù degli antichi vincoli politici con molte figure chiave dell’amministrazione Alemanno, per poi stringere nuovi e reciprocamente proficui rapporti con i loro successori ai vertici del potere capitolino.