Massimiliano Latorre, uno dei due fucilieri di Marina trattenuti in India ormai da quasi mille giorni con l’accusa di duplice omicidio nel caso Enrica Lexie, nella notte di domenica ha avuto un malore nella sua residenza all’interno del complesso dell’ambasciata italiana a New Delhi. Ricoverato immediatamente presso una struttura ospedaliera della capitale indiana, a Latorre è stato diagnosticato un attacco ischemico transitorio che non comporterebbe conseguenze gravi: i dottori indiani, fa sapere l’Ansa, sono soddisfatti delle risposte di Latorre alle cure somministrate.

La notizia, arrivata nella mattinata italiana, è stata resa pubblica in coppia col viaggio-lampo della ministra della Difesa Pinotti, volata immediatamente alla volta di Delhi per sincerarsi di persona delle condizioni di salute del fuciliere.

In mancanza di sviluppi tangibili rispetto alla vicenda legale, impantanata in una serie di rinvii causati sia dall’efficacia della difesa dei marò sia dalla letargia atavica del sistema giuridico indiano, il caso dei due fucilieri di Marina registra vampate di revival platealmente strumentali, cartina al tornasole di una narrazione ormai irrimediabilmente snaturata.

Il merito del caso, di fatto «sospeso» di fronte all’impossibilità di trovare un accordo tra Roma e Delhi sulla giurisdizione, diventa oggetto contundente per sostenere la «guerra santa» del momento.

Così, nelle ultime settimane, in Italia abbiamo inanellato: l’opposizione strenua dei «pro marò» alle nozze sfarzose della figlia di un miliardario indiano, Pramod Agarwal, previste a Fasano, in Puglia (che pare si terranno comunque, in quanto evento di natura privata); la polemica intorno alla firma di Alessandro Del Piero, che per un mese giocherà per i Delhi Dynamos nel nascente mini campionato di calcio indiano (con un impietoso confronto Del Piero – Giorgia Meloni, via social network, sul ruolo del politico e del calciatore nella società contemporanea. Impietoso per Meloni, s’intende); e ora, coi problemi di salute di Latorre, ci si butta a dissezionare le dichiarazioni a caldo di Giulia, figlia poco più che adolescente di Massimiliano Latorre, che su facebook sfoga la propria comprensibile frustrazione accostando il mancato ritorno del padre all’accoglienza dei migranti «che bucano le ruote perché vogliono soldi». Sfoghi sacrosanti e scomposti, comprensibili ma non condivisibili, che stridono col tradizionale comportamento inappuntabile che le famiglie Latorre e Girone hanno sempre tenuto nel corso di tutti questi mesi.

La vicenda Enrica Lexie è una matassa giuridica nella quale è difficile separare i capi: Italia e India hanno avanzato due interpretazioni diametralmente opposte della legge internazionale, rivendicando ciascuna il diritto di giudicare i fucilieri sottoponendoli alle proprie leggi.

La consegna di Latorre e Girone alle autorità indiane, nel febbraio del 2012, ha dato il via a un iter legale dal quale è impossibile uscire con un colpo di mano – come aveva improvvidamente tentato il ministro Terzi – senza conseguenze devastanti per i già sfilacciati rapporti bilaterali tra Italia e India. Le due strade percorribili, che corrono parallele nell’opera diplomatica del governo Renzi, sono lo spauracchio dell’«internazionalizzazione del caso» tramite arbitrato internazionale (opzione che richiederebbe altri anni alla pazienza delle famiglie Latorre e Girone) e la ricerca di un accordo a livello politico con l’esecutivo di Delhi, permettendo ai due governi una via d’uscita onorevole da presentare alle rispettive opinioni pubbliche.

Pinotti, da Delhi, ha elogiato il lavoro dei medici indiani e rassicurato nuovamente gli italiani circa l’obiettivo di Roma: riportare a casa i due militari. Il risultato, salvo nuovi e non auspicabili colpi di testa diplomatici, non potrà arrivare prima della prossima udienza della Corte speciale indiana, fissata per la metà di ottobre. Il resto delle polemiche rimane un pessimo e indegno rumore di fondo.