La ragione vera del mistero non ancora svelato della data del referendum costituzionale è presto scovata. Il governo, per la comunicazione tenuta segreta sino al 26 settembre, aspetta il tempo necessario per mettere in finanziaria una mancetta e darla in pasto ai pensionati. I numeri dell’economia sono disperati, la crescita è un miraggio, la deflazione è un dato inoppugnabile e per questo molto forte è il rischio che scattino le fastidiose clausole di salvaguardia (innalzamento dell’Iva). Non importa.

Occorre comunque annunciare un regalo di Natale, e per imprimerlo bene nella memoria labile dei cittadini bisogna ricorrere ad acrobazie procedurali per farlo riscuotere in prossimità del voto, anche se lo sfizio si paga con due miliardi di tagli alla sanità.

Da responsabile del collasso sempre più palpabile dell’economia, il governo cerca di tramutarsi in gran benefattore che consegna ai pensionati il miraggio di avvicinarsi ad una miniera d’oro. In prossimità delle feste Renzi spera che il suo dono in moneta trovi una ricompensa alle urne, dove “basta un sì” per salvarlo dal diluvio. Il rottamatore, che si è fatto strada con una posa giovanilista assunta come la sola identità, vista la carenza di pensiero, invoca il soccorso dei vecchietti, con pensioni al minimo da pura fame, senza la comprensione dei quali è condannato a convivere con il fantasma di moti spontanei di ribellione che lo accompagnano in ogni luogo d’Italia.

Con una figura retorica, il “laurenzismo”, si può cogliere lo stile del potere odierno. È la combinazione di due tipologie di governo, quella di un lupo di mare, “’o Comandante” di Napoli, e quella del caporale di Rignano, la caricatura dell’uomo solo al comando. Come il comandante, che con elargizioni, cronoprogrammi miracolistici e annunci avveniristici regnava su Napoli, così il sindaco d’Italia predilige la pioggia di annunci e l’offerta di mance in cambio del voto. Con la semplice benedizione dell’America, della Germania e di ogni potere finanziario ed economico, non riesce a trovare la fiducia del popolo e per questo sforna incentivi, bonus, regali, promesse.

Con le sue pratiche deteriori di scambio, il laurenzismo è la causa della rovina, non certo l’ultimo ramo cui aggrapparsi per non sprofondare. Con gli 80 euro in busta paga ha inguaiato l’Inps, e tolto le coperture pensionistiche e contributive. Con le decontribuzioni per le assunzioni ha accollato alla fiscalità generale, e quindi alla contrazione delle politiche pubbliche, i costi di una liquidità concessa per le imprese, che hanno benedetto le nuove tipologie contrattuali solo per regolarizzare rapporti di lavoro già in essere ottenendo in cambio soldi. Lo sforzo di elargire doni in autonomia, che sono preferiti alla decisione di sbloccare i contratti fermi da anni, serve al governo della narrazione per abbattere il ruolo del sindacato, destituire di senso l’azione collettiva e spegnere le politiche pubbliche.

Lauro e Renzi, insieme definiscono un leader ambiguo, un “laurenzi” insidioso. Il mozzo divenuto grande armatore a capo di una flotta, produttore cinematografico con amori da rotocalco, sindaco e parlamentare era un ricco imprenditore che si era fatto da sé. Ermanno Rea presentava però la prigionia a Padula come l’occasione per i servizi segreti americani di fabbricare in laboratorio un loro uomo. Il ricco che si dedica alla cosa pubblica solo per sacrificio, e promette di gestirla come una azienda volta a mirabili profitti che piovono su tutti, anticipa l’immaginario eroico della seconda repubblica.

Vicino alla settantina ma con un fisico asciutto, sempre abbronzato, con una insistita ricercatezza nel vestire, Lauro coniugava l’autoritarismo del padrone, che non a caso dichiarava guerra agli ambulanti, e la generosità del ricco premuroso verso i suoi poveri subalterni, sedotti con fantasiose pratiche clientelari e con la simbologia del denaro che accende l’illusione dei disperati. Anche lui parlava sempre di “bellezza” e di valori e, specialista ante litteram di annunci, prometteva di rendere Napoli il “giardino d’Europa” sul mare, una “perla”.

Le ingannevoli luci di Piedigrotta, e le parabole dell’immaginario che inseguivano i miti di una Napoli milionaria, si accompagnavano però a scelte di governo dal volto distruttivo. Ad alcune aree del centro, in effetti aggiustate con dei tratti regali, con pavimentazioni di velluto, giusto per soddisfare le regole della politica simbolica, corrispondevano zone immense di degrado e abbandono. Il primo atto della sua amministrazione fu l’abolizione del piano regolatore, con il risultato che la città fu abbandonata alla proliferazione di grattacieli abusivi, a sopraelevate, a privatizzazioni di ville e beni pubblici.

L’armatore, che per i democristiani negli anni cinquanta era una variante di Verdini, pronto a giravolte e abboccamenti con il governo centrista, con i voti raccolti dal suo movimento monarchico-clericale diede comunque un dispiacere ai padri ispiratori di Renzi, cioè a De Gasperi e Scelba che imposero la legge truffa a colpi di fiducia, come è accaduto con l’Italicum, per vederla rigettata dal popolo alle urne. A Renzi il comandante lascia però una eredita: l’annuncio, il cronoprogramma, l’uso dei simboli come arte del governo. E soprattutto consegna l’uso politico delle mance in una città che annusava l’oro e precipitava nel fango.

In cambio del voto, un dettagliante napoletano si vedeva abbonato il debito mensile verso il grossista che gli forniva la merce. In caso di vittoria, i galoppini restituivano agli smercisti le cambiali firmate per avere la roba. Ad altri elettori venivano recapitate scarpe spaiate che si appaiavano solo a voto incassato. Lauro dava una scarpa, la seconda la consegnava a votazione conclusa. Renzi dà la mancia e poi però se la riprende con nuove tasse, tagli alla sanità, ai servizi, ai trasporti, all’assistenza.

Renzi non stuzzica l’immaginario riscaldato invece dal comandante napoletano perché è percepito come un arrogante, un arrampicatore che, con la cricca al seguito, si appropria dei simboli del potere. Lo iato tra la responsabilità del potere e la effettiva levatura del ceto politico chiamato a ricoprirlo è poi così accentuato che i regalini non producono consenso.

Il laurismo due punto zero non funziona come pratica di governo e frana anche come veicolo di costruzione di un consenso durevole. Gli effetti dei bonus sono così labili che durano solo il giorno del voto per poi dileguarsi come palliativi inutili. Ecco il giorno del voto, quando ci sarà la data certa? Il referendum sarà celebrato quando i pensionati riscuotono l’assegno di dicembre e un bonus del governo precipita come un timbro sul loro certificato elettorale. La politica-panettone è però la miseria svelata del nuovismo dei rottamatori che prepara un disastro.