Come sua abitudine Louis Moholo suona con in testa uno dei suoi tanti cappelli: ma poi ad un certo punto Alexander Hawkins al piano accenna qualche nota di una melodia, e il batterista sudafricano discretamente si scopre la testa e appoggia il cappello sulla sedia che ha accanto, mentre prende forma Nkosi Sikelel’iAfrika. L’inno nazionale sudafricano in questo giugno il pubblico del Ravenna Festival ha avuto occasione di ascoltarlo più volte: al Teatro Rasi, oltre che martedì nell’esibizione di Moholo con i suoi 5Blokes, anche lunedì nel For Mandela della MinAfric Orchestra con guest Moholo e Keith e Julie Tippett, e prima ancora due settimane fa al Teatro Alighieri nelle quattro rappresentazioni di Mandela Trilogy, il musical allestito nel 2010 dalla Cape Town Opera, con la regia e il libretto di Michael Williams e la musica di Peter Louis van Dijk e Mike Campbell.

Trilogy perché il leader sudafricano è impersonato da tre cantanti diversi per rappresentare le varie fasi della sua vita; pur non senza ingenuità, musicali, di testo e di interpretazione, un lavoro interessante, perché si arrischia a confrontarsi con una imponente figura contemporanea, e nel 2010 ancora vivente, ricollegandosi alla grande tradizione sudafricana del musical (fra anni cinquanta e sessanta popolarissimo fra le masse nere), e mostra il protagonista anche nelle sue debolezze di «santo e peccatore», come ebbe ad autodefinirsi Mandela: in una canzone in cui parlano del loro amato, si ritrovano assieme in scena la prima moglie e le due donne con cui Nelson intrattiene contemporaneamente relazioni extraconiugali: la star della canzone Dolly Rathebe, e la futura moglie Winnie.

Un’opera di cui in Sudafrica si è parlato molto, e che in una edizione dedicata al tema della libertà il Ravenna Festival ha fatto benissimo ad inserire all’interno di un focus sul Sudafrica, completato da esibizioni dei Ladysmith Black Mambazo e di Hugh Masekela. Il Nkosi Sikelel’iAfrika dei 5 Blokes di Moholo è tutt’altro che un momento retorico: nella resa c’è persino qualcosa alla Ayler, lo spirito delle marcette care al visionario sassofonista del free jazz. E poi Nkosi Sikelel’iAfrika è della stessa pasta dei temi del repertorio di Moholo – suoi o composti dai compagni con cui nei ’60 condivise la scelta dell’esilio in Europa per sfuggire all’apartheid – in cui la componente melodica è forte, e spesso l’andamento è quello di un inno: paese in cui il canto e gli inni sono molto importanti, una tradizione radicata ancora adesso fra la gente, anche i più giovani, non bisogna dimenticare che il Sudafrica ha resistito, lottato e vinto cantando, e dell’importanza politica del canto parla anche Mandela nella sua autobiografia.

Così è del tutto naturale che l’epicità e il lirismo, l’enfasi sulle melodie, la propensione innodica, ad un certo punto portino il gruppo appunto ad abbandonarsi al canto. La successione dei brani, che si inanellano senza soluzione di continuità, nasce spontaneamente, sul palco, in una dimensione che ha dell’onirico, del flusso coscienziale, della transe, in cui le melodie sono come dei condensati emotivi che sprigionano forza e libertà. Per suonare così, senza rete, senza pause, e reggere per tutto un set senza banalità ci vuole affiatamento e carattere. Hawkins è sempre elegantissimo, sempre con le idee chiare sulla situazione e su dove andare a parare, John Edwards è un contrabbassista poderoso e creativo, le personalità del giovane Shabaka Hutchings, sax tenore con cui i 4 Blokes lo scorso anno sono diventati 5, e di Jason Yarde, sax alto e soprano, si integrano e si completano, e poi c’è l’impagabile drumming inquieto, che spariglia, di Moholo, che non liscia il pelo al ritmo nemmeno su Nkosi Sikelel’iAfrika, prima di rimettere il cappello.

Ascoltati con i 5 Blokes, alcuni meravigliosi temi del repertorio dei Blue Notes di cui Moholo è l’unico sopravvissuto – due per tutti: B My Dear di Dudu Pukwana e You Ain’t Gonna Know Me di Mongezi Feza – facevano parte anche dell’assortimento di brani di «For Mandela» (progetto concepito nel 2014 per il Talos Festival), assieme a materiali di Pino Minafra, inventore della MinAfric, come il bel Canto General su testo di Neruda, e di Keith Tippett: grande slancio e pathos esecutivo, e un riuscito amalgama di materiali, con la MinAfric che fa correre il pensiero a tante grandi esperienze: la britannica Dedication Orchestra votata al repertorio dei Blue Notes, la Liberation Music Orchestra, l’Italian Instabile Orchestra, il jazz inglese anni ’70.