Non c’è più nessun dubbio. Giorgio Manganelli è il maggiore autore postumo del nostro Novecento. Dopo l’accidente della sua morte sono usciti volumi in gran numero e di diseguale portata: alcuni di Manganelli, altri di qualche suo altro io. Basta sfogliare le pagine della nuova edizione della bibliografia per farsene certi (è stata approntata da Graziella Pulce, si veda il box in questa stessa pagina). Ma queste Estrosità rigorose di un consulente editoriale ritrovate allestite e commentate con estro e rigore da Salvatore Silvano Nigro (Adelphi, «Piccola Biblioteca», pp. 332, euro 15,00) sono un libro fulminante e necessario ai lettori del Postumo e del Vivente, perché permettono di percorrere la tessitura del mestiere, di avvicinarsi all’attività che, pur proiettata su notti e abissi veri onirici e verbali, fu spesa di giorno in giorno per il trentennio che va dalla piena maturità alla scomparsa, 1961-1990, con la continua voglia di perdersi nelle parole per poi ritrovarsi al solo scopo di perdersi di nuovo, quasi senza accorgersi d’altro, come il Baltasar Gracián di Borges sorpreso dalla Pallida una sera, leggendo le strofe del Marino.
Non estro, ma estrosità: condizione piena di estri. Sono lettere, pareri, consulenze; si possono leggere come esemplari magistrali di quella forma d’arte e di scienza che è il saggio letterario breve o come tracce destinate a mettere in luce un capitolo non minore della storia dell’editoria italiana. Dunque, Manganelli alle prese con le sue laboriosità e operosità editoriali, ma anche capitoli per la ricostruzione di un trentennio dell’editoria italiana, delle sue intenzioni riuscite e dei fallimenti: tutto visto attraverso la specola di un autentico e sincero falsario, di un capzioso inseguitore di verità inaccessibili. Nigro non soltanto ha rimesso insieme questo libro nato come per caso ma tenuto da una geometrica e folle coerenza: lo ha anche contestualizzato, fornendo note di scavo che sono in se stesse un libro, un lungo capitombolo attraverso le letterature per le quali Manganelli fu invitato a esprimere pareri: «ringhiava il suo “è un no disgustoso”, allorché rigettava un libro; o pronunciava lentamente, sibilando a labbra strette, “sto leggendo con odio”». Un parere per Einaudi del 1972: «è cosa di rara bruttezza, di una goffa opacità moralistica; lo trovo repellente. Pubblichiamolo»: uno per Adelphi del 1989: «Romanzo lesbico-trotskista, molto educativo e nobilmente progressista. Al diavolo».
Così, folgorante nelle sue definizioni, Manganelli è anche da annoverare nella schiera degli insigni battutisti, ovvero dei sottolineatori di verità anticonformistiche. Tutto è definizione ossimorica e tutto è mirabilmente elusivo. L’ossimoro individua non soltanto la retorica, idest l’ordine del discorso di Manganelli, ma identifica perfino il delinearsi di una delle sue possibili biografie, se Un ossimoro in Lambretta è adesso il titolo di una elegante e affettuosa memoria degli ultimi anni di tale figura retorica bipede dovuta a Patrizia Carrano (pubblicata dalla Italosvevo, pp. 90, euro 13,00, 130 grammi circa, in una collana dal titolo che a Manganelli non sarebbe dispiaciuto, «Piccola biblioteca di letteratura inutile», anche se il libro della Carrano – spiace dar torto all’editore – è tutt’altro che disutile). Viaggi insensati in autobus da capolinea a capolinea, Fellini, vetrine di lime e coltellini, la residenza di tutto ingombra in via Chinotto numero 8 interno 8, venerazione per i vini rossi e per il pecorino che non ha conosciuto il frigorifero…
Molto di Manganelli sta nella prima perseguita poi accentuata sempre esibita disfunzione dei rapporti tra realtà e immaginazione, tanto da fingere e fingersi che l’unica realtà fosse la sua immaginazione (verbale). Ha avuto per tutta la vita le idee chiare (altri le direbbe fissazioni) su che cosa si dovesse pubblicare, essendo consulente di Garzanti, Einaudi, Mondadori, Adelphi: voleva che gli altri leggessero per controverso piacere confinante col dovere ciò che lui aveva supposto di leggere con gioia. I titoli suggeriti a Einaudi per una collana di classici che poi non si fece sono gli stessi che avrebbe voluto mettere in circolazione, decenni dopo, per una collana di classici per Guanda: la trattatistica più vertiginosa del Seicento, poemi sbilenchi, enigmatici poeti, macchine celibi, scartoffie gnoseologiche: «Aveva posto nel Seicento, in quel “quartiere” malfamato della nostra letteratura, il suo domicilio d’elezione. E da lì, con il sostegno degli scrittori irregolari di tutti i tempi e degli scrittori dimenticati o malamente letti, da quel “lazzaretto”, avrebbe voluto imporre una cura da cavallo alla cultura letteraria italiana» (Nigro). Su uno di questi rimatori scintillanti, scrive a Carena dell’Einaudi: «è poeta assai interessante, uno dei più gelidi e macchinosi barocchi, un “non ispirato” di saputa e laboriosa retorica. Il mio voto è un chiassoso “sì”. E siccome spira un vento di bizzarria in via Biancamano (tra l’altro, aspetto il Ciro di Pers con la lingua “pennoloni”) potrei sommessamente insinuare i Leporeambi del Lepòreo, una delle stravaganze d’Italia?». Da altre testimonianze (di Davico Bonino) reperibili in nota, l’elenco sarebbe giunto a lambire anche il Torracchione desolato di Bartolomeo Corsini. Per Einaudi quell’unico eventuale lettore, benché entusiasta, non confortava i bilanci.
Prima dell’inizio, la necessità di far soldi (espressione esibita fino all’ultimo libro pubblicato in vita) per uscire dall’antro in affitto dove viveva dopo essere arrivato a Roma pare in Lambretta. Furono traduzioni, come quella del libretto di Sprigge su Croce (per Ricciardi) e della Note verso una definizione della cultura di Eliot (per Bompiani). Vicende che ricordano nello svolgersi quella del giovane Longhi traduttore di Berenson, per la sovrapposizione stilistica del traduttore sul tradotto; ma mentre in Longhi la storia fu volta al drammatico, con la rottura di una nascente anche se reciprocamente diffidente amicizia, in Manganelli volge al comico: o fa ostruzione rifiutandosi di correggere le bozze, allegando un biglietto che è un capolavoro di delicata perfidia; o ricevute le riserve lascia dormire il plico, poi rispedisce tutto tale e quale e viene passato dalla redazione: una ghiottoneria burlesca tramata ai danni dei disattenti.
All’inizio fu la causa dello sperimentalismo, quando si era in quella stagione di avanguardia che Manganelli aveva contribuito a vivificare e che presso Einaudi prese corpo nella collana di «Ricerca letteraria». Manganelli ultra vedeva e lasciava crescere la propria prosa per accompagnare con una nota un libro che magari si sarebbe dimenticato in fretta. Quando non gli sfuggiva la velleità di certe prove, se ne faceva curatore fallimentare, abbandonandosi non alla descrizione dell’oggetto ma alla visione che quell’oggetto gli aveva procurato. A qualche lettore l’unico interesse derivava non dal libro ma dalla nota di accompagnamento. Anche questo è sintomatico di una stagione andata, da interpretare per sprazzi e interstizi, e significa che Manganelli costeggiò lo sperimentalismo per servirsene come fermento, andando per i fatti suoi. Per esempio, in una pagina poco nota ritrovata da Nigro, Enzo Siciliano scrisse, schizzando a rapidi tratti un profilo di Manganelli stesso (in questi giorni cade il decennale della scomparsa di Siciliano: la citazione più ampia del solito valga per ricordo): «Talvolta c’è una nota di Manganelli, ed è questa l’unica cosa che dei volumetti si gusta con vero piacere, e fino in fondo. Ci si imbatte in un mirabolante fuoco d’artificio aggettivale… Alla valutazione positiva viene sostituito un elegante incastro di veleni e negazioni che strizzano gli occhi verso una malcelata e insidiosissima beltà. Per quel che mi riguarda aspetto di leggere cento e più pagine di Manganelli, una dopo l’altra e ben raccolte». Ora il libro è qui. E questa di Siciliano diventa una recensione anticipata di qualche decennio. Roba da Manganelli.