In un cinema multisala di Madrid nei pressi della Puerta del Sol, il centro della capitale spagnola, viene proiettato da qualche giorno un documentario di due ore dal titolo «Política, manual de instrucciones».

È la storia di Podemos: dal 2014, con il congresso di Vistalegre che sancì la leadership di Pablo Iglesias (non senza una battaglia contro chi rifiutava un «maschio alfa» alla guida di un movimento che si pretendeva orizzontale nella guida) fino alle elezioni del dicembre 2015 quando Podemos entrò per la prima volta nel parlamento spagnolo come terzo partito dopo Pp e Psoe.

Per due anni il regista Fernando León de Aranoa (già autore di «A perfect day» e «I lunedì al sole») ha puntato le sue telecamere su tutto quanto avveniva nel partito: dalle discussioni su come impostare gli interventi, alle diatribe teoriche, fino alle spaccature più gravi.

Nel documentario si assiste al momento delle dimissioni di Monedero in pieno contrasto con Iglesias ed Errejon, accusati di essere eccessivamente cauti («stavano facendo diventare Podemos come Ciudadanos», dice Monedero nel film), alla crisi e ai dissidi interni sulle «primarie», fino agli attacchi dei media contro Iglesias e le «connessioni sudamericane» della leadership.

In una scena del film Inigo Errejon descrive in pieno le novità teoriche apportate da Podemos, riassumendole in tre punti: la fine dell’ideologia basata sulla contrapposizione tra destra e sinistra, una posizione laica circa una leadership forte e la certezza che il «momento politico» si possa avere anche senza una base sociale già esistente.

Non solo, perché a un certo punto Iglesias ammette: «Noi abbiamo una storia precisa, veniamo da sinistra. Sappiamo bene che alcune nostre posizioni sono riformiste e limitate. Ma noi siamo nati con un intento preciso: vincere le elezioni». C’è tutta la «poetica politica» di Podemos in questa frase.

Poter vivere le giornate che hanno preceduto il voto del 26 giugno assistendo dal vivo ai comizi e vedere all’opera i ragazzi e le ragazze di Podemos non ha fatto che confermare la particolarità di questa esperienza politica. Come ha scritto Loris Caruso su queste pagine, Podemos è una formazione nata per vincere; per questo ha vissuto come una tragedia il risultato politico del 26 giugno, che sarebbe invece da considerare con maggior cautela.

Settantuno persone di questa formazione che ha praticamente solo due anni di vita saranno all’interno del parlamento spagnolo. Saranno le vedette di un «sentire comune» contro i due partiti che hanno dominato la Spagna dal 1978 mettendola in ginocchio. Una caduta rapida a tal punto da portare milioni di persone in piazza nel 2011: gli indignados.

Nelle società capitalistiche il dissenso viene gestito e controllato. In Spagna la piazza trovò la ferma posizione dei due partiti al potere. Il messaggio nei confronti degli indignados fu: «queste cose si risolvono in parlamento». Podemos ha preso la palla al balzo, provando a veicolare il malcontento in un partito con una chiara aspirazione maggioritaria.

L’ispirazione è arrivata dalle recenti pratiche sudamericane (vissute in prima persona da molti di Podemos) «tradotte» nella realtà spagnola. Ha significato attenuare alcuni elementi per adattarli all’universo che ci si trovava a fronteggiare, «spingendone» invece altri. Le parole, ad esempio, non hanno le stesso significato se sono dette da persone diverse. Per questo Podemos ha utilizzato fin da subito la parola «patria».

Per creare uno scarto con la sinistra spagnola che – secondo Podemos – non solo non era in grado di cambiare lo status quo, ma non era neanche in grado di comprendere davvero la lezione sudamericana. Un messaggio che raccontava di forze capaci di incarnare lo spirito di appartenenza nazionale contro gli usurpatori di quello stesso spirito, risolvendo il momento fatale dei momenti di lotta sociale – quello dell’impotenza – attraverso una chiara assunzione di responsabilità per quanto riguarda un tabù a sinistra: il «potere».

Aspirando in modo deciso alla conquista del governo, i leader di Podemos da «simpatici ragazzi» sono diventati ben presto un problema. Il sistema ti definisce e decide campo e armi con cui combatterti. Podemos ha ritenuto che questo terreno di battaglia fosse per lo più la televisione e i media in generale. E ha continuato a farlo, anche quando le armi dei vecchi partiti spagnoli si erano già spostate da un’altra parte, a smuovere le paure che il cambiamento provoca sempre in società che non sono completamente al collasso.

Non si tratta solo di sondaggi: parlando con gli spagnoli sono in molti a sottolineare che da qualche tempo le cose sembrerebbero andare meglio. Secondo la stampa nazionale, in pochi anni da una spesa media di 100 euro al mese nei bar si è passati a 67. Ma ora pare che ci sia una minima ripresa. Questo segnale probabilmente spinge parte della popolazione verso richieste «conservative» alla politica. Domande di «sicurezza» che diventano voto a Pp e Psoe.

Allo stesso tempo, però, per ampie fasce popolari questa minima ripresa continua a non esserci. E per questi strati di popolazione Podemos sembra aver fatto troppo poco, perché la sua natura non sembra in grado – per ora – di cogliere quella parte di società che ancora è in affanno. Lo ha detto bene Monedero il 27 giugno: «Podemos non è stata empatica». Nella campagna elettorale non è mai stata con i più deboli, «tra» i più deboli. Nei comizi la direzione degli interventi era sempre contro la corruzione, i paradisi fiscali e il malgoverno.

Quasi mai si è parlato di lavoro; si è accennato agli sfratti, al problema della casa, ma non di precarietà, di ricatto lavorativo, di paghe da fame. Alla lunga, specie se si guarda ad un elettorato giovane, questa «liquidità», questa fissazione con i video virali, Twitter e lo streaming, probabilmente infastidisce chi ha poco tempo da passare on line perché deve fare tre o quattro lavori contemporaneamente, e per di più mal pagati.

Ora la sfida di Podemos è cambiata: deve riempire di «sociale» la propria posizione politica che è chiara, netta, affascinante e potenzialmente dirompente. Con buona pace di chi dall’alto di squisiti discorsi rivoluzionari senza alcun seguito reale, mette ancora in discussione l’ortodossia di una formazione che ha saputo capire il nuovo mondo che ci circonda e che semplicemente – come dicono i leader di Podemos – «deve terminare l’opera di uccisione del padre». Come hanno fatto tutte le rivoluzioni vincenti.