Due porte legano in modo non programmato il destino di Giacomo Manzù e Lucio Fontana. Due porte non qualsiasi. Lo scultore bergamasco nel 1947 iniziò il tormentato percorso per una delle porte della Basilica di San Piero; nel 1950 fu la volta di Fontana, chiamato a concorrere per la quinta porta del Duomo milanese. Manzù alla fine, nel 1963, riuscì nell’impresa, ma solo grazie a un colpo di mano di papa Roncalli, bergamasco come lui, che forzò le esitazioni curiali. Fontana invece dovette rinunciare per estenuazione, di fronte alle infinite correzioni di rotta chieste dalla committenza. «La mia porta avrebbe perso tutta la sua personalità», scriveva nel 1958 per annunciare la sua «resa» all’amico Paolo Edelstein (la porta venne poi realizzata da Luciano Minguzzi).
I destini di Manzù e Fontana tornano ora a incrociarsi grazie a una mostra dalla chimica strana e affascinante curata da Barbara Cinelli (Manzù. Dialoghi sulla spiritualità con Lucio Fontana, sino al 5 marzo; catalogo Electa): a Roma, Castel Sant’Angelo, è esposta una ricca selezione delle opere a matrice o committenza religiosa di Manzù; ad Ardea, in quella che è sede della fondazione Manzù e che fu la casa e lo studio dello scultore, specularmente, sono presentati degli analoghi lavori di Fontana.
Attacco dall’Osservatore
Il fatto che il cantiere delle porte sia stato in entrambi i casi tanto lungo e tormentato, è indicativo di un approccio alla tematica religiosa molto libero e personale da parte sia di Manzù che di Fontana. Manzù veniva dalla mostra alla Galleria Barbaroux di Milano, aperta a gennaio 1941, in cui aveva esposto per la prima volta i suoi bassorilievi con scene della Passione di Cristo. In quell’occasione gli era arrivato un duro attacco da parte dell’Osservatore Romano per le libertà iconografiche che si era preso: la figura di Cristo, nelle varie versioni dei bassorilievi, pendeva dalla Croce, nudo e appeso per un braccio, con un’immagine di drammatica brutalità che richiamava quella dei condannati a morte. La tecnica dello stiacciato – quasi una scultura resa cedevole e cronachistica – accentuava poi questa dimensione, dando alle opere una vibrazione di attualità. «Io ho molto pensato alla tua ultima Deposizione», scriveva Toti Scialoja a Manzù nell’ottobre 1941. «Mi sono sorpreso a rivederla non più come una scultura ma come un fatto ancora più grande e misterioso, non una scultura ma uno spazio, un passaggio che l’anima invoca con la nostalgia di una terra promessa». Parole molto indicative nel contenuto e nel tono, queste di Scialoja, perché evocano il doppio slittamento di cui Manzù si era reso coraggiosamente protagonista: da una parte aveva adottato un approccio molto libero e istintivo all’iconografia religiosa, rendendosi così capace di intercettare l’interesse e suscitare la commozione di intellettuali spesso lontani dal cattolicesimo. Dall’altra quei bassorilievi introiettano anche la crisi della scultura come linguaggio, accettandone quasi uno svuotamento, o quanto meno una radicale riduzione di potenza: il magistero di Medardo Rosso aveva lasciato su di lui un segno profondo e in quegli stessi mesi Arturo Martini stava scrivendo il suo La scultura lingua morta.
Come ben sintetizza nel saggio di catalogo Barbara Cinelli, «Manzù aveva seguito una sua privata sperimentazione che l’aveva portato a individuare nell’iconografia della passione di Cristo il testo nel quale far coincidere la definizione di uno stile con un particolare momento della storia singolare e collettiva».
A difendere Manzù, e a spingerlo in gara per il concorso della Porta di San Pietro, nonostante i precedenti tempestosi con l’Osservatore Romano, era stato don Giuseppe De Luca, personalità di primo piano nel processo di rinnovamento che avrebbe portato la Chiesa al Concilio. Per lui rinnovamento della cultura e dell’istituzione andavano di pari passo, e quando scrisse che la Chiesa di Pio XII si presentava come «un bassorilievo assiro» dava un giudizio sintetico e geniale che valeva per tutt’e due i fronti. Manzù era chiamato a rompere un formalismo rigido e fuori dal tempo. Quanto a portare un soffio di vita nuova nell’istituzione ci avrebbe pensato l’altro bergamasco, Angelo Roncalli. Il bassorilievo è la dimensione congeniale per Manzù, quella che gli permette di essere più libero, di infrangere l’iconografia senza cadere in una retorica antagonistica. Il bassorilievo gli permetteva anche di innovare schemi formali con la leggerezza di chi lavorava in una sorta di «retrovia» della scultura, come si riscontra in tutte le porte che realizzò (per le cattedrali di Rotterdam e Strasburgo, oltre San Pietro).
Funziona meno, Manzù, quando normalizza il proprio linguaggio sia dal punto di vista della scultura che delle scelte iconografiche, come negli altorilievi con scene della Passione arrivati da Anversa. Torna invece a farsi «corsaro» e innovativo con la serie dei cardinali, monumenti conici, quasi faraoni arroccati nella loro solitudine e nel loro altissimo formalismo. Non a caso, quando vennero presentati a Londra, la critica li accostò alla corrosività della serie dei Papi di Francis Bacon. E non caso oggi, entrando nella bellissima sala che li raccoglie, tra quei muri da fortezza, sembra di essere finiti sul set di The Young Pope.
Ceramica per i gesuiti
Quanto a Fontana ha una produzione di opere religiose strabordante. Anche per lui la cifra distintiva è quella della libertà e dell’istintività. È una produzione che non ha mai nulla di programmatico e che riesce a mantenere una sua infiammata originalità anche quando nasce sotto «dettatura», come nel caso della grande pala in ceramica per i gesuiti della Chiesa di San Fedele a Milano. Fontana realizzò per sé, senza committenza, nel 1947, anche la prima Via Crucis, la più bella delle tre che sono nel suo catalogo: un vero esercizio di plastica spaziale. Come detto, dovette invece rinunciare al progetto della porta del Duomo. Rivedere oggi i bozzetti e quelle formelle fuse per il concorso, è come riaprire una ferita. Quella porta, immaginata alla rovescia, con i confini delle formelle infossati e le scene proiettate nello spazio circostante con energia centrifuga e invenzioni mozzafiato, avrebbe avuto un qualcosa di atomico. Un qualcosa che oggi possiamo con rammarico solo immaginare, grazie a queste meravigliose schegge.
Come ad esempio l’altorilievo del Frate che scrive, presente in mostra nella versione in bronzo (quella in gesso è invece al Museo Diocesano di Milano). È una formella che documenta la convinzione e anche la libertà con cui Fontana aveva approcciato quella committenza così laboriosa. La figura sbalza fuori dal piano di fondo con un impeto in cui ogni timidezza rispetto alla destinazione dell’opera è lasciata da parte. Eppure la sensazione è che Fontana sia comunque pienamente in tema e non forzi il lavoro in direzione di una propria visione: l’impeto con cui gli riesce di far sobbalzare il bronzo sembra davvero originato da un fuoco interiore che è difficile non definire religioso. Così, a posteriori, risulta strano che in quella circostanza Fontana non abbia trovato il sostegno di un personaggio come il cardinal Montini, che in quegli anni era alla guida della Curia milanese e che stava portando avanti una campagna coraggiosa per la costruzione di nuove chiese in periferia affidandole ai più importanti architetti attivi su Milano, da Gio Ponti a Figini e Pollini, da Mangiarotti a Gardella.
Anni dopo, diventato papa, Montini avrebbe fatto uno storico discorso agli artisti in Cappella Sistina chiedendo perdono, a nome della Chiesa, per le tante incomprensioni e tradimenti nei loro confronti («siamo ricorsi ai surrogati, all’“oleografia”»). Chissà se in cuor suo pensava proprio all’occasione persa con Fontana…