Anche a volerlo togliere, e potrebbe sembrare scelta scontata, quel punto interrogativo non scompare del tutto. Diventa segno che apre altre domande; dubbio che si propone subito dopo aver raggiunto un’apparente certezza; espressione di un giusto disorientamento finale e di un’inquietudine difficili da esprimere. La geografia serve a fare la guerra? è il titolo della mostra a cura del geografo Massimo Rossi, fino al 19 febbraio 2017 presso la Fondazione Benetton di Treviso. Quattro spazi per un viaggio di molti secoli, testimoniato da un numero per scelta ristretto di pezzi espositivi, così da agevolare la comprensione del discorso. Questo l’incipit della presentazione «Chiariamo innanzitutto che è l’uomo a fare la guerra e che per raggiungere i suoi obiettivi è disposto a utilizzare tutte le discipline disponibili; quindi non solo la geografia ma anche la fisica, la chimica, la geometria, la matematica, la linguistica, la storia, l’antropologia… Tutti i saperi servono a fare la guerra, ma è anche vero che non si può fare la guerra senza la geografia».

Il punto interrogativo del curatore nasce dal titolo invece affermativo di un pamphlet del geografo marxista Yves Lacoste, scritto quarant’anni fa, La géographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre, La geografia serve, principalmente, a fare la guerra, La découverte Editeur. Lacoste afferma il forte legame tra geografia e potere e l’importanza della geopolitica, ma Rossi non ricerca la continuità con tale interpretazione, né intende ancorare la geografia alle logiche militari «… al contrario, l’esclusione dell’avverbio d’abord e l’inserimento del punto di domanda ci consentono di storicizzare e articolare geografia e sapere geografico in più stimolanti declinazioni e contaminazioni con altre discipline e punti di vista». Assunto su cui poggia la mostra è che la geografia, meticciandosi con le scienze umane e territoriali, esplora i rapporti tra comunità e luoghi. Ma soprattutto storicizza le modificazioni topografiche attraverso la geografia storica, la storia dei viaggi e delle esplorazioni, la geografia regionale, la geografia urbana.

Una disciplina, afferma Rossi, assimilabile a un cantiere perennemente aperto, cui le connotazioni settoriali faticano a porre codici e limiti. È bene precisare ancora che il nucleo da cui la mostra scaturisce, la Grande Guerra, rappresenta solo il pretesto («gigantesco», lo definisce Rossi) per un discorso assai più ampio. Gli allestimenti di Fabrica, fucina creativa della Benetton, conferiscono al percorso luci ed evidenze particolari. Il primo spazio, «Rocce e acque», mette l’accento sull’uso strumentale del concetto di «confine naturale» per trasformare elementi del paesaggio in linee divisorie. Prova ne sia il regio Proclama di Guerra del Regno d’Italia contro l’Impero Austro – Ungarico «A voi la gloria di piantare il tricolore d’Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra». Il confine naturale è, al contrario, puro artificio, materializzato in carte e mappe attraverso cui si cercava di far passare l’idea di un’Italia unita ben prima che tale fosse, politicamente e nell’espressione di valori comuni. Il passaggio successivo, «Segni Umani», entra nello studio del geografo, interprete sulle carte del tempo storico cui appartiene, dove segni e simboli sono frutto di mediazioni culturali.

Grande inganno costruirono, a partire dalla seconda metà dell’800, le mappe etno – linguistiche, raffigurazione delle nazionalità dentro presunti confini specifici. Alle smentite degli antropologi, secondo i quali l’appartenenza a un gruppo etnico costituiva pura invenzione, facevano da contrappeso le manipolazioni nazionaliste della storia. Davano loro manforte, ad esempio, la Geographische Verbreitung der Menschen-Rassen, mappa delle razze pubblicata nel 1848 da Justus Perthes; la Veduta d’Italia, Litografia Corbetta, 1853, che mostra la penisola rovesciata e all’orizzonte Tunisi e Malta, mire coloniali; l’Atlante della Nostra Guerra, 1916, e la Carta dell’Europa etnico – linguistica, della De Agostini. Un angolo dello studio è riservato a Cesare Battisti geografo, autore di un lavoro sul Trentino nel quale rivendicava il ruolo determinante della sua disciplina per conoscere, capire e diffondere i valori economici, politici e sociali di un luogo. La sezione «Mappe e Arte» illustra un rapporto già espresso all’entrata da The Colours of Cultural Map di Pietro Ruffo, e ribadito nel planisfero circondato dalle nuvole del fiammingo Abramo Ortelio (1570), occhio di Dio sul mondo e sulle guerre di religione che lo martoriavano; nei tappeti geografici afghani, nella foto della terra scattata dall’Apollo 17, nella TerraCotta di Marco Ferreri. La geografia serve a fare la guerra? Viene da rispondere sì calpestando la gigantesca mappa militare sul pavimento dell’ultima sala. La punteggiano i simboli del primo conflitto mondiale: trincee, batterie di cannoni, filo spinato, postazioni… Mappa in continuo divenire grazie alle riprese degli aerei da ricognizione. Mappa e insieme cronaca aggiornata della più grande tragedia del ’900. Mappa come ulteriore contributo e frammento di un discorso che la mostra vuole lasciare aperto, affinché altre, inevitabili, impreviste domande si affaccino. Forse destinate a rimanere prive di una risposta certa.