La realtà serve su un piatto d’argento un’immagine che nemmeno inventando se ne troverebbero di più efficaci: il Sambodromo di Rio invaso dagli argentini. La struttura enorme e spaziosa nel centro della città, il progetto di Oscar Niemeyer per le sfilate delle scuole di samba durante il carnevale, e dentro, accampati come profughi, migliaia di tifosi argentini che aspettano la finale di stasera contro la Germania. Una partita che vedranno al fianco dei brasiliani – quelli che avranno il fegato di andare – al Fifa Fun Fest di Copacabana. Perché non c’è nessuno, nella tendopoli, che possegga un biglietto per vederla dal vivo al Maracanã.

Sul camper di Brian, 23 anni, è appeso uno striscione con i colori della bandiera argentina e il nome della sua città, Comodoro Rivadavia, sud dell’Argentina. Sono 4.500 km, tre giorni di viaggio se non ti fermi mai, e nemmeno il biglietto per la partita. Al Sambodromo non ci sono solo argentini, ma anche cileni e colombiani. La Prefeitura di Rio si è mostrata sensibile, non si è fatta scrupoli nel concedere un luogo tanto simbolico per la città a una torma di stranieri, con i loro camper, le tende, le griglie per l’asado. Non si paga nemmeno lo spazio occupato, è tutto gratuito.

Sensibilità ed elasticità da stato d’eccezione, si direbbe, e in effetti questo mese appena passato in Brasile è stato davvero eccezionale, con partite a tutte le ore, giorni di festa per ogni incontro della seleção, massima attenzione e cura nell’accoglienza ai turisti. Ma in fondo nell’accampamento del Sambodromo di eccezionale non c’è molto, in una città dove abitare precariamente è la norma per almeno il 20% della popolazione. Un 20% di cariocas che di questa precarietà conosce gli svantaggi, ma anche i vantaggi rispetto alla vita dell’asfalto, come viene chiamato tutto il territorio che non è favela. Nell’accampamento degli argentini si vive l’attesa con gioia, perché l’albiceleste è di nuovo in finale dopo 24 anni.

Per vedere dal vivo la partita Brian pagherebbe «qualsiasi cifra», dice, ma in ogni caso «qualsiasi cifra» non basta. Dentro il nuovo Maracanã ce ne entrano 78.000, meno della metà degli spettatori del Maracanaço, la tragica finale del 1950. Chi ha il biglietto se lo tiene, o se lo vende lo fa per almeno 5.000 euro e rischiando la galera (fino a due anni).

L’alternativa è viverla per strada, dove l’incontro con i dirimpettai brasiliani è una continua sorpresa. Gli sbattono continuamente in faccia i 7 goal presi dai tedeschi martedì sera. Cantano in loop il coro del mondiale, quello che finisce con «Maradona è più grande di Pelé».

Ma i brasiliani solo nella notte dell’onta si sono lasciati prendere un po’ dal nervosismo.

Il peso formativo della tragedia

Chi l’avrebbe mai detto che l’avrebbero presa così bene. Un giorno la sconfitta peggiore della loro storia calcistica e il giorno dopo gli argentini in finale, al Maracanã, lo stadio dei brasiliani dove il Brasile non ha messo piede in tutto il mondiale. Ma come l’hanno presa, veramente, i brasiliani? Pareri contraddittori nel paese delle contraddizioni. O Globo di ieri apre con un’intervista a una psicologa specializzata nell’elaborazione del lutto, che raccomanda di «affrontare la questione con i bambini» perché «il peso di questa tragedia può essere molto formativo». Invece Meia Hora, un altro giornale di Rio, titola: «Trovato altro gol tedesco nei capelli di David Luiz». La gente con cui parli per strada è più loquace del solito e le infinite discussioni sulla partita – «è colpa di Scolari, ma più che altro della federazione, ma poi se la rigiochi dieci volte non la riperdi così, seppure credo l’avresti persa anche con Neymar, ma forse con Thiago e Neymar insieme no» – somigliano più che altro a un esorcismo.
Bisogna certamente andarci piano con quelle formule retoriche della serie «l’incubo di un popolo», «un paese steso in terra in lacrime, al buio nella pioggia», ma è difficile credere che la sconfitta così umiliante di martedì sera non li abbia un po’ feriti. Non siamo ai livelli del Maracanaço del 1950, allora era stato costruito tutto un discorso intorno all’orgoglio nazionale interamente basato sulla prevedibile, e poi clamorosamente mancata, vittoria finale della seleção.

Questo oggi non esiste, ma il calcio, lo dice il grande giornalista brasiliano Joao Maximo, «è ancora l’istituzione con cui più i brasiliani si identificano». Soprattutto nel confronto con il resto del mondo, che attraverso il pallone – e solo attraverso il pallone – hanno potuto guardare dall’alto in basso per tre quarti di secolo. E difatti nel perdere così malamente è riuscito fuori il complexo de vira-lata, l’atavico complesso di inferiorità brasiliano di cui parlava Nelson Rodrigues nell’estate del ’50, ispirato proprio dalla reazione del paese al Maracanaço. In questi giorni i media brasiliani sono letteralmente ossessionati dalla superiorità tedesca, la «società perfettamente organizzata» che produce «il calcio migliore», «così cavallereschi nel non infierire, non una provocazione né un gesto fuori posto», «non pregano, non frignano, niente creste né tatuaggi». Si dimenticano che la pur superba squadra di Loew è praticamente la stessa che un paio di anni fa ne prese due senza fiatare dalla mediocre nazionale di Prandelli, trascinata da un Balotelli in serata schillaciana.

Quando il Brasile sfornava talenti

Però una cosa è senz’altro vera: fino alla generazione dei nati fine anni 70-inizio 80, il Brasile sfornava talenti come funghi. Contribuiva la fertilità di un territorio meno urbanizzato di oggi, e più povero, da cui potevano venir fuori esseri mitologici come Garrincha, uno che girava scalzo, pescava, cacciava, più un fauno che un uomo. Oggi diventa necessario pianificare, e per farlo occorre far pulizia in una Federazione calcistica corrotta e ancora legata a schemi e personaggi della dittatura.

Saranno questioni per Dilma, nel caso dovesse essere rieletta. Intanto, però, questa sera al Maracanã al fianco di Putin non vedrà – come fortemente sperato – la seleção. Potrebbero e meriterebbero di vincere i carnefici delle sue speranze, i tedeschi. Ma potrebbe andarle peggio, se alla mezzanotte (ora italiana, non considerando eventuali supplementari) fosse costretta a consegnare la Copa das copas nelle mani di Messi, capitano dell’Argentina. Un danno d’immagine serio in piena campagna elettorale, anche se gli analisti dicono che nelle elezioni di ottobre il calcio peserà poco. Gli avversari del Pt sono restii ad utilizzare il Mineiraço come arma politica, passerebbero per antipatriottici (come se il Brasile fosse solo calcio) o, peggio, populisti, cioè ciò che hanno sempre imputato al Pt di essere.

Nel complesso il mondiale brasiliano ha funzionato bene. E oggi la coppa verrà levata verso il cielo nuvoloso del mite inverno carioca. Quando inizieremo a pensare, con un po’ di tristezza, al freddo russo del Mondiale 2018 e alla canicola qatariota che ci aspetta nel 2022. E già comincerà la nostra saudade